Processo per la “coca killer“, i dubbi sulle cause del decesso
Sentiti in aula due periti che hanno effettuato le analisi sui campioni di sangue: «Tracce di droga, ma è da provare il nesso con la morte»
Nella famiglia della vittima, 38 anni, erano presenti tre casi di patologie cardiache, e l’uomo aveva fatto certamente recente uso di stupefacenti.
Per questo, per quanto accadde la notte tra il 26 e 27 aprile 2017 a Ferrera di Varese c’è un processo dove due giovani di 38 e 25 anni sono accusati di spaccio di droga e di morte come conseguenza di altro reato.
Il trentottenne morì in ospedale dopo il soccorso ricevuto e le intercettazioni fra i due imputati caduti nella rete di indagini a più ampio spettro li hanno portati in tribunale per un processo che sta per vedere la fine: il prossimo 20 giugno verranno sentiti, oltre ad altri due testi, e si arriverà alle conclusioni delle parti.
Nell’udienza di oggi, giovedì, dinanzi al tribunale collegiale presieduto dal giudice Orazio Muscato sono stati sentiti due tecnici della materia, due periti di parte: uno, chiamato dal pubblico ministero Flavio Ricci, è Luca Morini, dell’istituto di medicina legale di Pavia; l’altra, Elia del Borrello del laboratorio di tossicologia forense di Bologna (ma è anche medico legale) chiamata dal difensore dei due imputati, l’avvocato Corrado Viazzo.
Un confronto pacato, spesso convergente, che ha riguardato in primo luogo le sostanze e i valori delle stesse nel sangue della vittima: c’erano tracce di cocaina.
«I livelli di cocaina nel sangue – ha spiegato Morini – erano in concentrazioni non sufficienti per un’intossicazione acuta. La cocaina non è un elemento stabile e i tempi di dimezzamento della sostanza sono rapidi, ma tuttavia, in un soggetto con anomalie cardiache anche una piccola dose può causare un decesso».
Ma quanta droga assunse, quella sera la vittima? È questo uno dei nodi centrali. L’ipotesi è stata fatta dal perito della difesa, la dottoressa del Borrello: «Probabilmente una riga divisa in due (cioè per due persone ndr), quindi circa 200 milligrammi, assunta verso l’una del mattino, forse prima e una dose certamente non sufficiente per far morire una persona». «Il punto – ha spiegato la dottoressa – sta nel fatto che l’autopsia stessa ci ha detto che il cuore di quella persona funzionava male. Testualmente si trattava di “cuore flaccido“, che pompava male: la letteratura, ma anche alcuni studi effettuati su numerosi soggetti,parlano di una percentuale bassissima di dissezioni aortiche legate all’abuso di cocaina».
Insomma la ragione sta nella diversa valutazione che si fa su due elementi: quantità e qualità della sostanza assunta e situazione clinica (cardiaca) del soggetto.
L’unica certezza sembra cioè l’assunzione dello stupefacente, proprio quella sera, a seguito della cessione avvenuta in un bar di Cuveglio.
Ciò che viene contestato ai due imputati è di aver venduto quella sostanza alla vittima, e di aver poi cercato di concordare una versione «ufficiale» da dare in seguito ad aver appreso della morte: chiamate al cellulare considerate artefatte, quasi con la consapevolezza di essere ascoltati, dove veniva fatto esplicito riferimento alle condizioni di ubriachezza («come un asino») in cui versava la vittima.
Segni di una ebbrezza alcolica di cui tuttavia, secondo quanto sentito oggi in aula, nel sangue della vittima non v’era traccia.
Gli imputati, nei tempi buchi dell’udienza odierna per via dell’attesa di oltre un’ora della perita in arrivo da Bologna, hanno voluto puntualizzare marcatamente alla stampa alcune questioni legate a carenze nelle indagini ed eccessive lungaggini procedurali: elementi che potranno essi stessi riferire alla corte nel corso alla prossima udienza.
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