Salvare un cane o rispettare la privacy? Dibattito in tribunale a Varese sul post “di troppo”
I fatti risalgono all'estate 2021 quando una varesina in vacanza nella Vallée ha condotto una sua personale battaglia per un animale notato al sole sul balcone di una casa vicina scatenando una bagarre sui social. La parte offesa: “Noi messi alla gogna, amiamo il nostro cane"

Il punto è: vale di più il nobile intento di “salvare” un cane rimasto al sole su un balcone, oppure il diritto dei proprietari di questo cane di non finire al centro di una battaglia fatta di commenti sui social al vetriolo e di timori per chissà cos’altro, dal momento che la casa e la via dove vive la famiglia in questione erano state rese riconoscibili?
È una domanda che proviene direttamente dall’ormai famoso caso del processo per diffamazione che una residente di Châtillon, in Valle d’Aosta, ha mosso contro una varesina in vacanza nella Vallée all’inizio dell’estate di ormai tre anni fa. La signora, imputata, ha parlato martedì in aula e si difende dall’accusa di diffamazione, ossia di aver leso l’onorabilità di una persona attraverso uno scritto, in questo caso un post sui social, Facebook in particolare.
La contestazione riguarda non solo la foto del balcone “incriminato”, cioè quello dove stava il cane – un Border Collie di nome “Utah“, tuttora vivo e vegeto e in ottima salute – postata sui social (rendendo così la casa individuabile), ma anche la successiva pubblicazione del post sulla pagina Facebook di un animalista per attirare l’attenzione su un problema «per il quale le istituzioni non stavano facendo nulla», ha spiegato la donna. Come raccontato nella precedente udienza, le prime segnalazioni via mail arrivarono alla polizia locale il primo giugno 2021, poi fu effettuato il sopralluogo e la risposta alla turista varesina venne data l’8 dello stesso mese. Il post incriminato fu pubblicato dall’imputata una volta rientrata a Varese dal soggiorno valdostano.
Da qui sono partiti i problemi, segnalati dai residenti della frazione di Cret de Breil, che hanno sporto denuncia: il colmo è che la famiglia non utilizza i social e venne avvertita da alcuni amici a cose fatte. La discussione del processo avverrà il prossimo marzo, quando le parti trarranno le conclusioni. La tesi dell’imputata è di non aver mai voluto diffamare, ma solo esercitare una legittima “pressione” sulle autorità, che apparentemente non si erano mosse (in realtà l’intervento della polizia locale ci fu, senza riscontrare alcuna anomalia nella tenuta del cane, che soffriva di una particolare patologia che gli imponeva di rimanere all’aria aperta e in una certa postura, senza alcun intento di “suicidio”).
Chi accusa la donna, invece, pretende giustizia per quella condotta ritenuta – anche dal tono delle domande della PM e dell’avvocata di parte civile – superficiale e fuori luogo: «Perché invece di fare post su Facebook non ha mai suonato alla mia porta?», ha detto la parte offesa tra le lacrime, ancora scossa per quanto accaduto. «Trovo assurdo che l’imputata non abbia pensato alle conseguenze del suo gesto. Siamo stati messi alla gogna per niente: noi amiamo il nostro Utah».
Il difensore della donna imputata, Vincenzo Toscano, ha precisato in seguito alla pubblicazione di questo articolo che «in realtà, il post contestato all’imputata fu pubblicato il 6 giugno 2021 mentre la prima risposta alle molteplici segnalazioni pervenne alla mia assistita soltanto il 10 giugno 2021, quando ormai era rientrata dalle vacanze in Val d’Aosta. Sottolineo questa circostanza in quanto il post venne pubblicato quando la mia cliente non aveva ancora ricevuto alcun riscontro alle segnalazioni fatte alla P.L. di Chatillon, ai Carabinieri, alla competente ASL ed al Canile Municipale».
La sentenza, dopo le discussioni, è prevista a marzo.
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