Il ritorno di Mario Monti a Varese tra ironia e memoria: “Chatgpt non sapeva che un premier è nato qui. Ma io sì”

L’ex presidente del Consiglio ospite a Villa Panza per il ciclo “Voci di Varese”: dal legame con la città alle sfide della politica, fino al valore della cultura. “Varese? Poco nel presente, tanto nel mio futuro”

Mario monti

«C’è poco Varese nel mio presente, moltissimo nel mio passato remoto e, credo, tanto anche nel mio futuro».
Mario Monti sorride, gioca con le parole e con il tempo, ma dietro l’ironia si legge un affetto autentico. A riportarlo nella sua città natale è stato l’invito del FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano ETS, che a Villa e Collezione Panza ha organizzato il terzo appuntamento del ciclo Voci di Varese. Un’occasione per riflettere sul valore dei territori, sul loro patrimonio e sulle storie che li attraversano.

Voci di Varese nasce proprio con questo obiettivo: far emergere il dialogo tra la città e chi ne incarna, a vario titolo, l’identità. A introdurre il senso di questi incontri è stata Gabriella Belli, che ha voluto sottolineare come Villa Panza debba diventare sempre più “un luogo da abitare” per i varesini. Un auspicio raccolto e rilanciato da Monti, che con tono garbato e a tratti confidenziale ha riannodato il filo del suo rapporto con la città.

«Sono nato a Varese, al Circolo, il 19 marzo 1943 – ha ricordato con il sorriso -. Ho vissuto qui i primi anni della mia vita, poi Milano. Ma le estati dai nonni, tra viale Borri e Sant’Ambrogio, sono rimaste tra i ricordi più belli. Varese è sempre stata generosa con me».

Non è mancata, fin dall’inizio, una punta di autoironia. «Ho chiesto a ChatGPT se fosse mai esistito un presidente del Consiglio nato a Varese. Mi ha risposto di no. Eppure eccomi qui» ha scherzato, inaugurando così una conversazione che si è snodata tra politica, economia e cultura.

Interrogato dalla giornalista Rosi Brandi sull’influenza della sua “varesinità” nella vita pubblica, Monti ha avviato un racconto che ha intrecciato volti e momenti significativi della politica italiana, esprimendo stima per Giuseppe Zamberletti, riconosciuto come il padre della protezione civile, Umberto Bossi e per Roberto Maroni; proprio di quest’ultimo ha rievocato con un sorriso l’episodio in cui, leggendo che l’ex ministro dell’Interno avrebbe sostenuto la sua candidatura per un terzo mandato europeo “perché è di Varese”, lo chiamò dicendogli, con tono divertito, che se avesse avuto anche qualche altro motivo non avrebbe dovuto esitare ad aggiungerlo.

Ma se i ricordi e gli affetti hanno dominato la prima parte del confronto, la seconda ha aperto le porte ai temi più impegnativi. Monti ha rivendicato le scelte compiute durante il suo governo, riconoscendone il peso e l’impopolarità. «Non fu facile, ma era necessario. Le misure erano dure, ma il mio esecutivo ottenne il più alto voto di fiducia parlamentare nella storia della Repubblica. Tutti capivano che serviva farlo, anche se pochi desideravano farlo.

E mentre il racconto scivolava su territori globali, la conversazione ha trovato in Donald Trump un simbolo di un certo modo di intendere il potere. «Il populismo — ha osservato — prevede bene il primo effetto delle decisioni, ma governare significa immaginare anche il secondo. E Trump non lo fa. Quel caos aiuta solo le autocrazie, a cui sembra voler appartenere”. È qui che Monti ha indicato un percorso possibile. »L’Unione Europea — ha spiegato — deve essere il motore di un’alleanza tra le democrazie liberali. Solo un’intesa tra questi Paesi può rappresentare un argine forte contro la crescita delle autocrazie nel mondo». L’Europa, insomma, come sfida e come responsabilità.

Il finale, inevitabilmente, è tornato alla cultura e alla sua funzione sociale e civile. «La cultura ci salverà? Non è il mio campo — ha ammesso — ma credo che il rispetto, la conoscenza e la consapevolezza della nostra piccolezza davanti all’arte e alla storia siano fondamentali. Troppo spesso la politica dimentica tutto questo e diventa volgare».

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Pubblicato il 06 Maggio 2025
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