Intelligenza artificiale: quando spariscono i gradini (e i giardini) della crescita

Dai guru della Silicon Valley al Guardian, il racconto è entusiasta. Ma i nostri giovani rischiano di perdere l’allenamento umano che forma giudizio e carattere

Generico 08 Sep 2025

«L’intelligenza artificiale è la nuova competenza universale. Chi non la impara, resterà indietro». Lo ripetono i guru, lo scriveva pochi giorni fa il Guardian citando Sam Altman e altri protagonisti di Silicon Valley. È il racconto rassicurante e scintillante: i ragazzi devono solo “abbracciare l’IA” e tutto andrà bene. Ma la realtà, per chi lavora da anni, è diversa. E forse più drammatica.

La mia esperienza: dal calcolo a mano al clic dell’IA. Quando ho iniziato come analista in Arthur D. Little, passavo giornate e notti su modelli complessi: segmentazioni, curve di adozione, logiche fuzzy. Non era solo lavoro: era palestra mentale. Ho imparato disciplina, rigore, senso critico. Soprattutto a provare, sbagliare, rifare, migliorare.

In Whirlpool, una delle prime sfide fu stimare la diffusione di un prodotto “rivoluzionario” per il mercato statunitense, una lavatrice a carica frontale con bassissimi consumi energetici. Ore di tabelle, fogli di calcolo, modelli di diffusione delle innovazioni, discussioni infinite. Il mio capo (Ed Weldholt, mi portava a pranzo una volta alla settimana per capire come stava andando) non credeva che ne avremmo vendute solo 30 mila il primo anno e soprattutto in California.

Ricordo una presentazione che condivisi con un manager di lungo corso (Mr. Metcalfe). La restituì con più note e indicazioni di quello che avevo scritto io. Ci rimasi di sale e capii il significato di elevare la qualità. Cesellare, cambiare prospettiva. Il coraggio di buttare via ore di lavoro e ricominciare. Oggi nell’azienda dove lavoro, continuo con lo stesso metodo: domande impossibili, come chiedere a un giovane candidato di stimare «quanti fiori sono sbocciati sulla Terra» e «quanto pesano». Non per avere la risposta giusta, ma per vedere il ragionamento, la capacità di restare lucidi nell’incertezza, la gestione dell’emozione davanti a un problema insolito.

Oggi invece? Tutto questo lo fa un algoritmo in un clic, “più pulito di come lo faceva un junior”, mi sussurra un consulente di una delle grandi società, che sta smettendo di assumere analisti. Un anno fa – lui 35enne – validava i risultati delle risposte di chatGPT, oggi dice “sono io ad imparare dalle risposte. La velocità di apprendimento supera la nostra immaginazione”.

Il commento che mi ha colpito. Un amico creativo ha commentato così un mio post in merito: «In tre anni i freelance creativi sono cresciuti del 25%. Ma nelle professioni più esposte all’AI le offerte di lavoro sono crollate del 31%. Prima una junior designer passava settimane a creare decine di varianti: ora l’IA le genera in pochi secondi. Ma così… dove si alleneranno i futuri leader?»

Ecco il vero rischio: non l’IA che ruba posti di lavoro, ma l’IA che cancella i gradini di allenamento. Senza i “compiti umili” dei primi anni, come si costruiscono giudizio, occhio, resilienza?

L’antidoto: allenamenti umani, anche locali. La risposta non sta solo nell’università o nei guru globali. Sta anche nel nostro territorio. A Varese, ad esempio, Materia Spazio Libero organizza corsi di videomaking, scrittura creativa, recitazione, comunicazione digitale, inglese. Sono occasioni concrete dove i ragazzi sbagliano, rifanno, ricevono feedback da persone vere.
Ci sono laboratori che spaziano dalla musica al teatro, dalle composizioni floreali al coding. Tutti esercizi che non danno “compiti perfetti”, ma formano muscoli invisibili: concentrazione, giudizio estetico, capacità di stare in gruppo. In altre parole, gli stessi muscoli che l’IA non può allenare al posto nostro.

  1. Dieci linee guida pratiche per le famiglie che si trovano spiazzate e incerte davanti alle scelte dei percorsi educativi da sostenere per i loro figli. Guardare ai corsi come palestre, non come titoli. Chiedete: questa università insegna a ragionare o solo a usare strumenti? Parlate coi ragazzi che la frequentano. I docenti sono agili e aperti o ancora arroccati e pensano alla pensione?
  2. Verificare l’integrazione dell’AI. Bene se si usa, ma ci sono momenti in cui lo studente deve ancora scrivere, calcolare, progettare da solo? Andate a vedere le biblioteche dove studiano: cosa fanno? Andate a una lezione, come si insegna?
  3. Valutare i docenti come allenatori. Non solo trasmettitori di nozioni, ma persone che stimolano dubbi e dialogo. Guardati i loro profili social. Cosa scrivono? Che idee hanno?
  4. Affiancare percorsi extra-universitari. A Materia o in altre comunità locali: corsi di videomaking, teatro, scrittura creativa.
  5. Favorire esperienze concrete. Stage, progetti con startup, volontariato: il valore è nell’imprevisto, non nella perfezione. Educatori dei camp estivi, che noia? Esatto, è lì che nasce la resilienza e l’empatia.
  6. Allenare la manualità. Musica, sport, arte, artigianato: sviluppano creatività e disciplina. Giardinaggio, uncinetto? Perché no?
  7. Accettare errori e fallimenti. Meglio un laboratorio dove si sbaglia e si impara, che un test perfetto copiato da un algoritmo. Raccontare storie in famiglia di quanto si è appreso sbagliando.
  8. Investire nelle soft skills. Comunicazione, collaborazione, empatia: restano decisive anche nel mondo AI. Idea per un progetto? Raccontare la storia della famiglia partendo dall’albero genealogico, un progetto collaborativo con parenti e amici.
  9. Scegliere studi ampi. Filosofia, matematica, letteratura: non danno solo contenuti, ma allenano logica e pensiero critico. L’umanesimo non è di moda, è un sempreverde.
  10. Creare reti di mentor umani. Nessun algoritmo può sostituire un adulto che sa correggere, incoraggiare, sfidare. Visite guidate, conferenze, film. E poi se ne parla durante il viaggio di ritorno.

La narrazione iper-positiva ci dice che basta imparare l’AI e saremo al sicuro. La realtà è che i nostri giovani (e non solo) hanno bisogno di allenamento umano: gradini concreti, esperienze pratiche, adulti che li guidano. Il compito delle famiglie non è proteggerli dalla tecnologia, ma assicurarsi che, accanto all’IA, abbiano ancora la possibilità di formarsi come persone. Perché domani non vincerà chi saprà cliccare più veloce, ma chi avrà sviluppato giudizio, creatività, resilienza.

Alla fine, l’intelligenza artificiale ci rende la vita più facile, ma non ci darà mai la fatica di un calcolo fatto a mano, il profumo di un fiore raccolto per caso, la voce di un maestro che ti corregge.
È lì, tra errori e incontri veri, che diventiamo persone.

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Pubblicato il 14 Settembre 2025
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