Quattro ragazzi su dieci non riconoscono il controllo del partner come violenza

Secondo una ricerca dell’Università Cattolica, quasi il 40% dei ragazzi tra i 14 e i 16 anni non percepisce come violento il controllo del partner. Il 13 novembre a Palazzo Estense di Varese l’incontro con il professor Luca Milani e la dottoressa Gaia Cuccì

Università varie

La violenza di genere non nasce all’improvviso, ma spesso affonda le radici nei primi rapporti affettivi, in gesti di controllo e sopraffazione che molti giovani non riconoscono ancora come tali. Di questo si parlerà mercoledì 13 novembre alle 18.30 a Palazzo Estense di Varese durante l’incontro “La violenza di tutti i giorni: dalle prime relazioni sentimentali alla violenza di genere”, organizzato dall’associazione Essere Esseri Umani con il patrocinio del Comune di Varese. (PRENOTA QUI)
Luca Milani (nella foto), professore ordinario di Psicologia dello sviluppo all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e la dottoressa Gaia Cuccì, presenteranno i risultati di una ricerca  sulle dinamiche della violenza nelle prime relazioni sentimentali. In questa intervista, il professor Milani anticipa alcuni dei temi dell’incontro: dal ruolo della famiglia e dei media fino alla necessità di un’educazione affettiva capace di prevenire la violenza prima che si manifesti.

Professor Milani, quali sono, se ci sono, i segnali precoci di comportamenti violenti o di controllo che possono emergere già nelle prime relazioni sentimentali, soprattutto tra i giovani?
Quali sono i primi modelli che influenzano queste dinamiche?
«I nostri dati mostrano che la violenza nelle prime relazioni è più diffusa di quanto si pensi, anche se spesso sottovalutata. Nella maggior parte dei casi si tratta di violenza psicologica, cioè controllo, gelosia, coartazione, ma, come ricorda la Convenzione di Istanbul, anche questa è una forma di violenza a tutti gli effetti. Dalle nostre ricerche emerge che per quasi il quaranta per cento dei ragazzi, soprattutto tra i 14 e i 16 anni, comportamenti come controllare lo smartphone o i profili social del partner non sono percepiti come forme di violenza o sopraffazione. Le prime relazioni sentimentali in adolescenza sono una vera e propria palestra identitaria in quanto rappresentano un terreno di costruzione del sé e di negoziazione tra i generi. I modelli familiari giocano un ruolo importante. Ciò che i ragazzi vedono nelle relazioni domestiche tra madre e padre costituisce la base delle loro aspettative affettive. Accanto alla famiglia, però, hanno grande influenza i social media e il gruppo dei pari».

Quando avviene il passaggio all’atto, cioè dal controllo alla violenza vera e propria? E che cosa lo scatena?
«Il fattore centrale è la difficoltà di regolare le emozioni e l’impulsività. Un adolescente con scarso controllo degli impulsi e bassa tolleranza alla frustrazione è più a rischio di trasformare una situazione di tensione in un atto violento. In adolescenza, inoltre, esiste una bidirezionalità perché anche le ragazze possono agire forme di violenza, seppure prevalentemente psicologiche, mentre i ragazzi hanno maggiore tendenza a passare all’atto fisico o sessuale. In entrambi i casi, la difficoltà di gestire gli stati emotivi rappresenta la scintilla che accende l’abuso».

I fattori culturali e sociali, e in particolare i media, quanto pesano nella normalizzazione della violenza?
«Molto. La famiglia resta la prima fonte di apprendimento, ma i media svolgono un ruolo enorme nella costruzione degli stereotipi di genere. Un padre violento o aggressivo trasmette ai figli, maschi e femmine, un modello di relazione malato. Le ragazze possono abituarsi all’idea che la violenza sia “normale”, i maschi che sia “legittima”. E spesso, come mostrano gli studi, vittima e aggressore condividono una vulnerabilità comune. Chi oggi subisce, domani può diventare autore di violenza. I media, dal canto loro, stanno migliorando. La narrazione del “raptus” è sempre meno usata, e questo è un bene. Il raptus anche sul piano giuridico è difficile da dimostrare e non spiega la violenza di genere, che invece è pianificata e deliberata, frutto di un’escalation e non di un impulso momentaneo. Pensiamo, per esempio, al caso dell’omicidio di Giulia Cecchettin. Non è stato un gesto incontrollato, il ragazzo aveva cercato informazioni su come nascondere il cadavere, su quali coltelli usare».

Le nuove tecnologie e i social stanno cambiando le forme di violenza nelle relazioni?
«Studio i media da oltre 25 anni e credo che oggi non si possa più parlare di vita “online” e “offline”, ma di una realtà onlife, dove tutto si intreccia. Purtroppo, la velocità con cui circolano contenuti violenti o commenti d’odio, il cosiddetto hate speech (i discorsi d’odio, ndr), è superiore alla capacità degli algoritmi di intercettarli. Basta pensare alla tragedia di Tiziana Cantone, una donna che, dopo la diffusione non consensuale di un video intimo, è stata travolta da un processo mediatico e sociale senza fine, e si è tolta la vita. Ancora oggi la madre combatte per far rimuovere i contenuti. È un esempio estremo di violenza, esercitata dai media e dal pubblico».

Lei parla di “vittima ideale”. Cosa intende?
«I media spesso trattano in modo diverso le vittime, alcune vengono dipinte come “innocenti”, altre meno degne di empatia. È una forma di violenza nella violenza. Fino a poco tempo fa, si leggevano titoli dove l’autore della violenza veniva definito “Il gigante buono”, un modo per suscitare curiosità e click, ma che minimizza la gravità dell’atto. Fortunatamente oggi si nota una maggiore consapevolezza e un linguaggio più attento».

Dalle vostre ricerche emerge anche il ruolo della trasmissione intergenerazionale della violenza. Cosa significa?
«Chi cresce in famiglie dove il potere è squilibrato o dove vige una disciplina rigida tende a riprodurre quegli stessi modelli nelle proprie relazioni. Tuttavia, non è un destino inevitabile, altri adulti significativi, come insegnanti ed educatori, possono proporre modelli alternativi e interrompere la catena della violenza».

Qual è, allora, il ruolo della scuola?
«È un ruolo fondamentale. Servirebbe una vera alleanza educativa tra generazioni. Anche figure informali, influencer, sportivi, personaggi pubblici, dovrebbero riconoscere la responsabilità sociale dei propri messaggi. Le ricerche mostrano che chi consuma più contenuti violenti o sessisti, come certi videogiochi o testi musicali, ad esempio nella trap, manifesta livelli più alti di sessismo, sia ostile, cioè con affermazioni che  definiscono le donne come “inferiori”, sia benevolo sostenendo che le donne vanno protette perché “fragili”. Il rischio è di interiorizzare una visione paternalistica e diseguale dei rapporti di genere».

Che cosa invece previene il gesto violento?
«L’empatia, la capacità di mettersi nei panni dell’altro riduce il rischio di atteggiamenti violenti. Proprio per questo è grave che i percorsi di educazione affettiva e sessuale vengano ancora ostacolati o limitati. Andrebbero introdotti fin dalla scuola primaria, non solo negli ultimi anni. Purtroppo, dove serve di più, spesso il consenso genitoriale manca, e questo lascia i ragazzi più fragili senza strumenti».

Si parla molto delle vittime, ma poco degli autori della violenza. È possibile lavorare anche su di loro?
«Bisogna farlo, perché i reati legati alla violenza di genere hanno un alto tasso di recidiva. Ho collaborato alla valutazione di progetti di recupero dei sex offenders e i risultati sono incoraggianti perché la recidiva si riduce fino al 70% grazie a percorsi terapeutici mirati, soprattutto quelli di gruppo, che obbligano l’autore a confrontarsi e a riconoscere la propria responsabilità. Ignorare questi percorsi e “buttare via la chiave” è un errore. Chi esce dal carcere senza supporto, cioè senza lavoro e senza contatti sociali, al primo segnale di stress, prima o poi, ricade negli stessi comportamenti.  L’unico modo per abbassare il tasso di recidiva è lavorare sull’offender, altrimenti è peggio».

Da docente che ogni giorno entra in aula e dialoga con i ragazzi, ha la sensazione che ci sia maggiore consapevolezza rispetto ai temi della violenza di genere?
«Noto una grande differenza di consapevolezza tra ragazze e ragazzi. Le giovani donne oggi sono molto più lucide e sensibili ai temi del rispetto e della parità, mentre molti coetanei sono rimasti indietro. Questo crea uno squilibrio relazionale e, in certi casi, un senso di frustrazione nei ragazzi, che può sfociare in sentimenti di rivalsa o di appartenenza a comunità online come quella degli Incel, giovani uomini che si percepiscono esclusi dalle relazioni e sviluppano atteggiamenti di odio verso le donne. È un fenomeno preoccupante, che mostra come la violenza di genere sia anche una crisi culturale e identitaria maschile. Per questo è fondamentale continuare a parlarne, nelle scuole, nei media e nella società».

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Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 10 Novembre 2025
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