«Grazie Cunardo, in questo paese avvenne un miracolo»

Momento di enorme commozione il racconto dei Nissim, tornati per ringraziare quanti non li denunciarono durante le persecuzioni razziali di 74 anni fa

La prova che a Cunardo nell’autunno del 1943 avvenne un vero e proprio miracolo sta nelle parole fredde e limpide come il ghiaccio che nella mattina di oggi sono uscite dalla bocca di Lea Nissim. Questa donna di 78 anni ricorda chiaramente gli stivali alti e neri delle SS come fosse ieri, la pentola nella mano della mamma con cui attraversò una Padova invasa dai nazisti, con l’altro braccio occupato dal figlioletto Daniele, nato da pochi mesi e mai abituatosi – ancora oggi – all’abbaiare di quei cani, cani lupo, che i tedeschi tenevano al guinzaglio e a volte liberavano per catturare e uccidere gli ebrei.

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Cittadinanza onoraria a Lea e Daniele Nissim

Istantanee del viaggio che portò i Nissim a Cunardo dove rimasero sotto copertura un anno e mezzo per via di documenti falsi fino alla fine della guerra; questi ricordi hanno fatto piangere, nell’evento con cui l’intero paese si è ricongiunto a questa famiglia coi suoi interpreti più preziosi, i giovanissimi delle scuole, fortunati uditori di storie come questa appena uscita, sembra, dal copione di un film.

Oggi, in una sala comunale dove non entrava più neppure uno spillo, il miracolo è stato raccontato, e la prova del grande cuore dei cunardesi arriva proprio da lei, Lea, unica testimone oramai di ciò che avvenne (il fratello, appunto, era piccolissimo).
«Avevo quattro anni e giocavo con le vicine di casa più grandi di me, eravamo arrivati in paese da poco, ricordo ancora la notte in cui qualcuno scese le scale, con la candela e le ombre lunghe che mettevano paura. Le amiche mi chiedevano di dove fossi, e io rispondevo: “Di Padova, ma mamma e papà hanno detto di dire che sono di Caserta”».

Al piano superiore di quella casa oggi visitata con enorme commozione, c’erano mamma e papà, che la fulminarono con lo sguardo: il loro segreto di sfollati da Padova, ebrei, ricercati dalla polizia, era stato svelato.

E poi? E poi nulla accadde. E il frutto di quel silenzio è nella grande foto che ritrae la famiglia Nissim oggi, in Israele con figli e nipoti mai venuti al mondo se qualcuno, in quei giorni di guerra, avesse accettato il prezzo del tradimento, denunciando alle autorità la presenza della famiglia ricercata.
Un racconto pazzesco raccolto per caso da Giovanni Bloisi, il ciclista della memoria scoppiato in lacrime, accolto da un applauso, quando gli è stato chiesto di raccontare.

Cunardo ha deciso di dare a Lea e Daniele la cittadinanza onoraria, consegnata in pergamena nelle loro mani dal sindaco Angelo Morisi e dall’assessore Paolo Bertocchi.
In paese sono arrivati numerosi sindaci, oltre ai vertici della Provincia. Lo stesso Gunnar Vincenzi ha ricordato come queste vicende abbiano toccato direttamente molte famiglie, compresa la sua, proprio come accaduto per milioni di italiani.

Durante la commemorazione è stata inscenata anche una piccola riduzione dello spettacolo teatrale realizzato dalla compagnia teatrale Duse che in cinque minuti ha spiegato ai tanti studenti presenti ciò che accadde, in che modo i Marrone, i Brusa Pasquè, i Rimoldi aiutarono tantissime persone a salvarsi, pagando spesso con la vita.

Cittadinanza onoraria a Lea e Daniele Nissim

Poi la visita alla casa. In quelle strette vie dove c’era un tempo una filanda, nella via Roma dove passavano, marciando di notte, le squadre nere e i nazisti alla ricerca di fuggiaschi, al primo piano del civico 26 è stata proprio Lea a riconoscere quella scala in sasso, quel ballatoio, e il giardino dove giocava con le vicine.

Oggi tutti noi sappiamo che qui avvenne qualcosa di speciale, di unico, come quel cognome, Nissim, che in ebraico vuol dire “miracoli”.

Una fortuna immensa, costruita però non solo dal caso, ma anche dalla forza di opporsi alla barbarie, un gesto ricordato magistralmente da Lea.
«Mi accorsi della portata di quello che ci accadde quando, tornata a Padova dopo la guerra, all’età di sei anni, vidi tornare i primi superstiti dai campi di concentramento. Erano scheletri dallo sguardo perso e spento, fisso nel vuoto. Mi immaginai – avevo sei anni – di quello che sarebbe successo al mio fratellino, a me, a mia mamma e a mio papà se ci avessero trovati. Ma questo non è accaduto, e ora siamo vivi. Grazie, Cunardo».

Andrea Camurani
andrea.camurani@varesenews.it

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Pubblicato il 19 Ottobre 2017
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