“Quando un giorno mi ammazzeranno”

Varese – La testimonianza di Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia nel luglio del 1992

«Vorrei che vi vedeste da qui, è un abbraccio caloroso il vostro». Esordisce così Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia il 19 luglio del 1992. I ragazzi hanno appena finito di posare i loro mattoni per una città ideale, hanno  recitato poesie e cantato, hanno espresso i loro desideri di giustizia e  solidarietà. «Perché è stato ucciso mio fratello Paolo? Lo avete appena detto voi. La mafia lo ha ucciso perché lui aveva deciso di incarnare e di vivere ciò che avete appena finito di affermare su questo palco». 
(sopra: Rita Borsellino)

Rita Borsellino, subito dopo la morte del fratello, ha iniziato un cammino di testimonianza contro la mafia, dapprima "incosciente" , sull’onda dell’emozione, e poi via via sempre più determinato e razionale. Non ha mai pianto quella morte, per non dare soddisfazioni ai suoi assassini, ma ha trasformato quel dolore fraterno in energia positiva. 
«Guai a sentirsi sconfitti. All’indomani della strage, da sola ho iniziato ad andare nelle scuole a parlare di Paolo, della sua attività di magistrato, ma anche dell’uomo, di come era da piccolo, delle sue speranze e dei valori con cui era cresciuto. L’ho presentato come un fratello, come un padre e un amico». 
Parla da cittadina e si mette nella stessa posizione di dubbio che ha colto ogni italiano di fronte alle immagini delle stragi di Capaci e  via D’Amelio: «Io cosa ho fatto per evitare tutto questo. Io, come molti di voi, avevo delegato a persone come mio fratello la lotta per la legalità, per la dignità e il rispetto dei diritto. Li abbiamo lasciati soli, abbiamo lasciato che venissero additati e attaccati. Come cittadini non siamo stati abbastanza vivi. Lui, con altri,  si è caricato di questo compito, ma vi assicuro che non si sentiva un  eroe».

"A ciascuno il suo". Il titolo di un  famoso libro di Sciascia ci starebbe bene in questa storia. Le responsabilità e le omissioni, tutto quello che si poteva fare e non è stato fatto, le ridicole scuse di un potere costituito che "il suo" non lo faceva, sono un vivo ricordo. «Un giorno andai a trovarlo a casa. Arrivando notai che sotto casa sua c’erano file di macchine parcheggiate, nessun divieto di sosta e un cassonetto dell’immondizia. Uno scenario ideale per un attentato. Gli chiesi perché non intervenisse. Mi rispose molto pacatamente che non doveva essere lui a pensare alla sua sicurezza. Era una risposta che nascondeva un concetto più importante: se ognuno facesse fino in fondo il proprio dovere non ci sarebbe più spazio per l’illegalità. Posso anche credere che le istituzioni siano state colte di sorpresa, ma non è stato fatto nulla perché queste stragi non avvenissero»

La storia dell’antimafia è anche storia di donne e Rita Borsellino lo ricorda con fierezza. «Togliamoci dalla testa l’immagine della donna siciliana con il velo nero, i baffi e la rassegnazione nell’animo. Durante i fasci siciliani, in alcune  province, gli scioperi e le occupazioni delle terre contro il latifondo venivano organizzati e fatti dalle donne. Quando Paolo è stato ucciso, è stata Felicia Impastato, madre di Peppino, ad infondere grande forza a mia madre».
Si dice che alla morte non ci si abitui mai. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano abituati a considerare le loro vite meno di un bottone, lo dicevano ridendo, con quell’ironia triste e ineluttabile di chi vive in terra di mafia.  
«Sapevamo che Paolo rischiava, quella morte non era certo inaspettata. Lui stesso non diceva mai "se mi ammazzeranno", bensì "quando un giorno mi ammazzeranno "».


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Pubblicato il 28 Febbraio 2002
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