Addio Arcarino, campione di altri tempi

È stato un grande calciatore: nella nazionale di Pozzo, nel Milan con Peppino Meazza e nel Livorno, ricordato ancora oggi come una bandiera. Da allenatore ha fatto entrare nella storia il Varese di Patron Borghi. Sabato alle 15 i funerali a Comerio

Bruno Arcari, detto "Arcarino", se ne è andato all’età di 89 anni, dopo aver regalato a questo Paese bellissime ed entusiasmanti pagine di sport. Timido, riservato, con quella cortesia che contraddistingue i galantuomini di altri tempi, due anni fa ci aveva rilasciato questa intervista che riproponiamo nel giorno dell’addio.

Grazie Arcarino


Vive a Comerio, in cima ad una collina, una volta feudo della famiglia Borghi. Di fronte ha il lago con i suoi splendidi tramonti, alle spalle la nostalgia e i bei ricordi. Ha un sorriso timido e lo sguardo sveglio. Si muove ancora con agilità, nonostante i suoi 86 anni. Appartiene ad una stirpe di sportivi: gli Arcari. Lui è il IV, Bruno, detto Arcarino, ultimo di un’umile ma fortunata nidiata. Un tempo non c’era bisogno di manipolazioni, erano i geni che sceglievano una famiglia adottiva: Sentimenti, Cevenini, Monti, Chiecchi e Arcari, appunto, che al calcio regalò quattro figli. Un numero a fianco al cognome e il gioco era fatto, senza possibilità di confondersi. (foto: Bruno Arcari)

Bruno Arcari ha segnato più di cento gol tra serie A e B (non ha mai tenuto il conto preciso). Ha fatto parte della nazionale di Pozzo, alpino ancor prima che allenatore, che faceva le adunate e cantava il Piave nei ritiri pre-partita. Ha giocato nel Genoa, nel Bologna, nel Livorno (con 53 reti, miglior realizzatore nella storia degli amaranto, dopo Viani), nel Milan, a far coppia con il mitico Peppino Meazza, tutto genio e sregolatezza. «Non voleva sentire parlare di tattiche, il Peppino. Un ragazzo semplicissimo che in campo diventava il re dell’area di rigore, paragonabile per doti tecniche al grande Pelè». Il calcio di Bruno Arcari era ancora in bianco e nero, con la gente che andava allo stadio in giacca e cravatta. ll tifo era una festa, che nemmeno la guerra riusciva a rovinare. Era già un mondo di privilegiati (parole sue), ma umano, dove un giocatore di serie A poteva essere acquistato in cambio di una partita di lana, come avvenne in occasione del suo trasferimento a  Bologna.

Arcari non ha mai fatto politica, nemmeno quando era un obbligo. Certo il fascio era dappertutto, cucito sulle maglie accanto allo scudetto, nelle coppe levate al cielo, nei discorsi e nelle celebrazioni, nelle strette di mano mancate e nei sorrisi di circostanza,  ma gli atleti godevano di una sorta d’immunità di pensiero. «Il fascismo ci coccolava molto e nemmeno la gestione politica delle squadre, affidata ai podestà o ai federali, riusciva ad imporsi sul tifo e la passione sportiva. Ricordo che a Livorno il presidente politico portava le maglie al rabbino, capo della comunità ebraica, per una sorta di benedizione scaramantica».

Si viaggiava sempre in treno – d’altronde arrivavano in orario – da Messina a Milano, gente normale e atleti famosi e incontri straordinari, come sull’Orient-Express, erano un fatto normale. «Un giorno sul Bologna – Livorno ho conosciuto un giovane distinto, un tifoso rossoblu. Parlammo a lungo e alla fine del viaggio mi lasciò il suo numero di telefono. Solo quando lo chiamai scoprii che era il figlio dell’aiutante in campo del re. Gli chiesi un favore per un mio vicino di casa che era partito per la campagna d’Africa, lasciando a casa moglie e figli. Lo fecero tornare subito». Potenza della pedata!
Soldi non ce n’erano molti, ma abbastanza per fare una bella vita. «Per quei tempi si prendeva bene. Negli anni Quaranta in una squadra di provincia si guadagnava anche sessantamila lire all’anno. Se si tiene conto che una bella villa ne costava quindicimila e un quadro di Fattori tremila, non era niente male».

Era un calcio fatto di sogni, il business lasciava il passo ai desideri infantili dei presidenti che inseguivano i loro pupilli nelle situazioni più impensate. «Ricordo che in occasione del mio passaggio al Bologna non ero d’accordo sul contratto. L’allora presidente rossoblù, Renato Dall’Ara, mi inseguì  in stazione e quando ero sul treno già in partenza per Milano, lui si attaccò al finestrino e proseguì a piedi seguendo il treno che lentamente usciva dalla stazione, chiedendomi di andare a giocare a Bologna. "Vieni da noi…vieni da noi"».

Bruno Arcari ha girato in lungo e in largo la Penisola prima da giocatore e poi da allenatore. Ha fatto esordire Osvaldo Bagnoli, "quel bravo ragazzo" che puntualmente si presenta a salutarlo ogniqualvolta passa dalle parti del lago. È stato l’artefice del Varese dei miracoli, stagione 1967-68, quando i biancorossi potevano contare sul più grande capitano d’industria del dopoguerra, Giovanni Borghi, e sul libero più forte d’Europa nell’era pre-Beckenbauer, tale Armando Picchi. Prese sotto la sua ala protettiva Pietruzzo Anastasi, il bomber saraceno, lanciandolo nell’olimpo del calcio nostrano. Una stagione magica, come quella che oggi sta vivendo il Chievo di Del Neri e Campedelli, che valse alla squadra il settimo posto in classifica e un 5 a 0 che rimarrà nella storia, rifilato alla signora più vecchia e blasonata del calcio italiano.

Arcari è una persona timida, a modo. Il dialogo e la comprensione, sia da giocatore che da allenatore, sono state le sue carte vincenti, di doping nemmeno a parlarne. «Il massimo della richiesta che un giocatore poteva fare allora riguardava l’alimentazione. Non c’erano tutte le conoscenze di oggi e la carne era l’alimento principe per un atleta. Ricordo però con simpatia le richieste gastronomiche che Buonocore, terzino dell’Inter, fece nel suo contratto: pastasciutta tutti i giorni. A quei tempi non si parlava di doping. L’unica sostanza, peraltro lecita, che girava era la simpamina, che aiutava a superare l’impatto e la timidezza».

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Pubblicato il 11 Dicembre 2004
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