Un dolore senza frontiere nell’addio a Mohamed
Nel giorno del funerale amici e conoscenti si sono stretti attorno ai genitori del ragazzino di dieci anni morto nella notte di domenica
A volte anche i dolori più lancinanti hanno un senso: servono almeno a fare accadere quello che sembra impossibile.
I funerali di Mohamed, il ragazzino di dieci anni morto nella notte tra domenica e lunedì scorso si sono svolti nel pomeriggio di venerdì 19 febbraio con un rito misto – in parte civile secondo le abitudini “di qui” e in parte musulmano – nella sala del comune, gremita di gente, e poi al cimitero del paese. C’era il sindaco, c’era il console del Burkina Faso, c’erano i rappresentanti delle comunità di immigrati.
Ma, soprattutto, c’era tutta Malgesso: quella dei varesini del nord e quella degli immigrati del sud, i bambini e le signore, gli anziani e gli amici, di qualunque razza e religione fossero. Tutti intorno al dolore della mamma, del papà e dei famigliari, tutti desiderosi di esserci al loro fianco.
Le maestre hanno portato all’ultimo saluto intere classi, le bambine dell’oratorio del paese piangevano in modo straziante ma non volevano andarsene. Anziani signori coi visi segnati segnati dalla operosa vita del varesotto assistevano affranti e compunti alla parte del rito più “musulmana”, quella della sepoltura, fianco a fianco di giovanotti tatuati, ragazzini in tuta e compaesani della famiglia.
«Il rito vuole che gli amici, quelli che sono più vicini alla famiglia, portino a braccia la bara e poi aiutino a seppellire la persona» spiega commosso ai “non abituati” un amico di religione musulmana, dando ragione del motivo per cui decine di uomini attendono silenziosamente il proprio turno, poi prendono la vanga e con grande impegno buttano la terra sulla bara bianca prendendosi cura, per l’ultima volta in questo mondo, di Mohamed.
Un rito che spiazza innanzitutto gli operatori funerari, che si sono di fatto ritrovati “senza lavoro” proprio nel momento in cui da queste parti tutti fuggono, e lasciano l’ingrato compito a chi non è emotivamente coinvolto. Appena è chiaro il rito, si mettono in coda e prendono la vanga anche gli allenatori della squadra dell’oratorio del Malgesso, dove Mohamed giocava con impegno. D’istinto, senza domandarsi cosa si fa “di solito”: qui tutti pensano solo ad onorare e rispettare il dolore nel modo di chi lo vive.
«Vedere tutte queste persone così diverse insieme è un segno di speranza» Spiega Thierry Dieng, da sempre in prima linea nelle associazioni di immigrati, qui non solo in forma istituzionale, ma anche perchè il padre di Moahmed è stato a lungo attivo con l’Associazione Ubuntu, che Thierry guida. «È triste che si debba partecipare al funerale di un bambino morto tragicamente per averlo così evidentemente sotto i propri occhi, ma è bel segno poterlo vedere, e sarebbe bello che proprio questa disgrazia potesse aiutare a cambiare il futuro».
Renderlo più bello e più pulito, partendo dai bambini e dai palloncini bianchi che loro hanno lasciato andare al passaggio del feretro: alcuni dei quali sono rimasti impigliati nell’abete del comune, proprio di fronte a dove il bambino si è ferito mortalmente. Sotto quell’abete, e quei palloncini, alcune ragazzine del paese si stringono attorno alla sorella di Mohamed e l’accompagnano a casa dalla mamma, che secondo il rito islamico non ha seguito il figlio al cimitero. Fianco a fianco, ragazzine con gli zainetti colorati e i piumini, prima ancora che “malgessesi” o “immigrate”.
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