La musica nei lager, un’equazione strampalata tra bellezza e orrore
Il difficile compito di chi si trovò a comporre e suonare nei luoghi della morte
L’annientamento è togliere. Togliere dignità, rispetto, pietà, speranza. Togliere l’uomo dall’uomo e ridurlo a bestia. Una condizione sub-umana (untermenschen) nella quale la musica interviene con ambiguità. Sottomessa anch’essa a quello che Primo Levi definì «adescamento ideologico», in balia di un’equazione strampalata tra bellezza e orrore. Eppure la musica è per tutti: internati (che cantando “restano in piedi” e riescono a ricavarsi una realtà parallela di cinismo e humour nero nella condivisione dell’orrore), musicisti (che ne ricavano qualche privilegio, ma sanno che anche questo finirà), soldati e ufficiali (che la trasformano in strumento di scherno e tortura), direttori d’orchestra (il caso di Alma Rosé, kapò e violinista alla testa della formazione tutta al femminile di Birkenau).
Nei lager – nazisti, italiani, russi, giapponesi – si faceva musica. La si componeva e la si suonava. Su commissione dei kapò o degli alti gradi dell’esercito. Per ricorrenze ufficiali, festività, svago. Ma il dubbio – in tutti coloro che la scrivevano, che la ascoltavano, che l’hanno studiata – resta: la musica può cancellare l’inferno? La musica può ridarti tuo figlio, di soli tre anni, ridotto in polvere? La musica può non farti sentire le ferite di un cane che t’azzanna?
La musica cosa può fare nell’anticamera della morte?
“Esercitati nei 24 Studi, ti salveranno”. Alice Herz-Sommers, nelle testimonianze di Mueller e Piechocki, è una pianista che cerca in Fryderyc Chopin una “voce” contro la disperazione.
Il suono che cerca di sovrastare le urla; la melodia che si fa il nido nell’anima per sopportare.
Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Treblinka, Teresienstadt: sono i luoghi nei quali la somma perfetta dell’annientamento risulta dalla pianificazione della sofferenza. Gli uomini sono morti che camminano. La musica, però, è lì. Nelle menti dei tanti compositori che nei campi di concentramento trovarono la morte o, per pura e semplice fortuna, riuscirono a farne ritorno.
Messe, mottetti, sonate per pianoforte, violino, flauto. Sinfonie, canzoni e ballate. Da Ervin Schulhoff a Pavel Haas, da Hans Krasa a Olivier Messiaen, da Gabriele Mandel Khan ai religiosi benedettini e francescani. Non c’è nulla che faccia sentire meglio della musica. Non c’è nulla che, nello stesso tempo, faccia sentire peggio. Il degrado è celebrato tra ritmi yiddish e folclore polacco. Perché nei lager, i soldati e gli ufficiali si devono divertire. Il jazz, nonostante sia “musica degenerata”, porta sempre i nomi di Irving Berlin, Duke Ellington, Cole Porter. Resistere e sopravvivere: l’uno contro l’altro. Perché gli stessi musicisti sono vittime costrette ad essere aguzzini. Suonano per chi muore, per chi soffre, per i boia, per i nuovi arrivati nei campi. Annunciano il ritorno o la fine. Sono mal sopportati e malvisti. A volte offesi e bistrattati. Non c’è nulla di bello nella musica dei lager, se non la resistenza umana contro il Male. La resistenza di chi, sfibrato dalle grida, compone con la carta masticata nelle orecchie. E lascia ai posteri il suo ultimo tango.
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