Frasi d’amore scritte al pc da Federico Roncoroni
“Un giorno, altrove” il romanzo d’esordio del linguista e curatore di Piero Chiara in libreria: un’intensa storia epistolare fra eros, passione e sofferenza
Perché Isa si fa sentire sette anni dopo aver lasciato Filippo, e lo fa via mail, quasi per tenere le distanze, sebbene quasi subito gli chieda di lui, di cosa fa, di con chi sta? La risposta è custodita nelle “memorabili frasi d’amore/scritte a macchina” per dirla con Paolo Conte, confezionate con grande originalità in “Un giorno, altrove”, romanzo “pop” e colto allo stesso tempo, scritto da Federico Roncoroni per Mondadori.
L’autore lo conosciamo qui a Varese per essere il curatore del fondo alla memoria di un grande della letteratura italiana del secolo scorso, Piero Chiara (da poco l’uscita dell’inedito “il 28 ottobre” per SE in occasione del centenario dell’autore luinese), anche se l’autore comasco ha fatto molto altro; in questo romanzo epistolare c’è anche un po’ della passione chiariana per le donne, ma a rendere facile la lettura è l’ambiente creato dall’autore: un cofanetto di tranquillità in riva al Lario fra gatti speciali e raffinatezze culturali. Un buen ritiro scelto dall’intellettuale Filippo Linati per difendersi dai tempi moderni dopo aver battuto un linfoma che quasi lo strappa dalla vita ma che non gli serve a molto – anzi, lo ostacola quasi – quando deve destreggiarsi nella gestione delle risposte fitte, serrate, intime, stuzzicanti della sua amata di un tempo che torna alla ribalta in maniera così inconsueta in una metà mattina di fine marzo.
Lo spaventevole numero di mail che Filippo invia in un crescendo di risposte alla sua Isa non deve intimorire perché è ben diluito nelle quasi 400 pagine di questo romanzo d’esordio che tiene conto di giochi d’amore e viaggi, esperienze mistiche e sensuali di un uomo che diventa “personaggio” mano a mano che le pagine se ne vanno. Roncoroni parla la lingua della strada quando fa miagolare un gattino in dialetto e racconta di “scemeggiati” alla tv; la sua scrittura affronta tuttavia anche l’intimità di due amanti destreggiandosi in latino e in lingua stilnovista: appunto i tratti di romanzo colto e popolare al contempo e capace di spingersi nei recessi della sofferenza quando tratta il tema della malattia: a tratti sembra leggere le pagine de “L’albero dei mille anni”, il regalo fatto da Pietro Calabrese a tutti noi prima di andarsene.
Ma chi sono questi due personaggi che si chiedono: “Non potevamo accontentarci di Mina che cantava Il cielo in una stanza o Bugiardo e incosciente? Non potevamo semplicemente ascoltare Baglioni o Cocciante? No, ci volevano le poesie di Bertolucci, di Gatto, di Luzi. Prévert, Eluard e Neruda ti parevano banali e volevi l’Achamatova, poi la Plath. E io volevo Auden, Eliot e poi Malamud, Roth, la Oates, Cormac McCarthy, Auster, McEwan, la Munro, la Gordimer, la Byatt e tutte le altre e gli altri metticeli tu”.
Una convinzione, e una speranza, a libro chiuso: Filippo Linati avrà presto voglia di raccontarci i suoi esordi, magari in quella Milano da bere che appena si percepisce fra le pagine e dove si affacciò alla vita, e alle sue lettere.
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