La povertà colpisce la classe media

Don Marco Casale, responsabile della Caritas provinciale, commenta l'indagine della Camera di Commercio sui contribuenti

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Per don Marco Casale, responsabile provinciale della Caritas e parroco della Brunella, la povertà ha sguardi e nomi di persone che incontra ogni giorno alla mensa dei poveri, alla Casa san Carlo, che dà una dimora a chi è senza tetto, alla Casa santa Margherita, che accoglie le madri con i figli, e alla comunità Sant’Antonio per gli adolescenti. Sono sempre di più le persone che chiedono un aiuto a queste strutture per integrare il reddito e continuare a fare una vita il più possibile normale. L’impoverimento delle famiglie è un fenomeno che si è acuito negli ultimi anni in coincidenza con la crisi economica, come dimostra l’indagine sui contribuenti fatta dall’Ufficio Studi della Camera di Commercio di Varese.

Don Marco, quanto è cambiato l’identikit del povero in questi anni?
«È cambiato molto perché oggi la povertà colpisce anche la classe media. Alla Casa San Carlo, per esempio, accogliamo persone che fino a ieri avevano un buon reddito: cuochi, muratori, commercianti, persone che avevano una vita normale, una famiglia, ma che una volta perso il lavoro e la loro capacità di reddito si sono ritrovati in una condizione di povertà spesso associata anche a problemi famigliari come separazioni, divorzi e malattie».

Ma quanto è reale la povertà e  invece quanto è percepita?
«Noi tocchiamo tutte e due le cose. Ma al primo livello c’è quella reale causata da una mancanza prolungata nel tempo di qualsiasi forma di reddito e poi ci sono persone che hanno imparato ad arrangiarsi con quello che hanno cercando di integrarlo con le varie forme di welfare. Se una persona deve campare con 275 euro di pensione di invalidità è una sfida impossibile da vincere e allora si costruiscono percorsi come gli alloggi in condivisione in attesa che arrivino alla pensione di anzianità. Sono situazioni “finestra” che noi accompagniamo fino al miglioramento strutturale e che vanno sostenute nel quotidiano. Sono forme di integrazione al reddito».

L’indagine della Camera di Commercio parla di un peggioramento negli ultimi cinque anni. I vostri numeri confermano questa tendenza?
«Sì, le persone che si rivolgono alla mensa della Brunella, durante la crisi, sono raddoppiate, arriviamo fino a 80 pasti al giorno. E lo stesso si puo’ dire della mensa delle suore che arriva fino a duecento pasti. Casa San Carlo ha ospitato un centinaio di persone mentre abbiamo ampliato Casa Santa Margherita dove ospitiamo le madri con bambino. Spesso sentiamo la battuta che la crisi non esiste perché i ristoranti e le pizzerie sono sempre pieni e bisogna fare la fila. In alcune fasce di reddito invece la crisi ha effetti ben rilevabili perché chi non aveva niente prima continua a non aver niente, ma aumentano quelli che prima avevano un certo reddito e oggi non possono permettersi né il ristorante e né la pizzeria, soprattutto se hanno famiglia».

Mi fa qualche esempio?
«Uno dei settori più penalizzati dalla crisi è stata l’edilizia e chi prima campava di quello si è trovato di colpo in mezzo a una strada. Si tratta di professioni che erano ben remunerate, persone che vivevano grazie al lavoro prodotto dalle loro mani e che sono state espulse dal mercato. In questi anni si è divaricata molto la forbice perciò chi aveva già strumenti economici e conoscenza ha trovato una risposta, la fascia medio-bassa ci ha lasciato le penne perché non gli è stata data la possibilità di rimettersi in gioco».

Alla parrocchia della Brunella state allargando l’offerta di servizi per combattere il disagio economico e sociale. Tra le iniziative c’è anche un emporio alimentare dove chi è in uno stato di necessità puo’ venire a far la spesa gratuitamente. È la risposta a una domanda in aumento?
«È la nostra risposta al bisogno alimentare che con la crisi è andato aumentando di giorno in giorno. Le mense sono frequentate dai singoli che spesso non hanno nemmeno una dimora. L’emporio invece consentirà alle famiglie cadute in povertà di continuare ad alimentarsi mantenendo anche un’unità del focolare domestico. È un’iniziativa centrata su quella classe media che ha patito di più la crisi. Rispondere a un bisogno primario così importante con questa modalità avvicina quelle persone che non andrebbero alla mensa con i figli per ovvi motivi. Si tratta di nuclei famigliari con bambini che hanno già un’autonomia abitativa ma il cui reddito non è più sufficiente, perché magari uno dei due genitori ha perso il lavoro, in questo modo noi riusciamo ad integrarlo per un periodo di sei mesi eventualmente rinnovabili fino a quando la situazione non migliora».

Qual è l’aspetto che in questi anni di crisi l’ha colpita di più?
«Vedere persone che hanno voglia di lavorare e che impazziscono stando a casa a far niente. Persone che hanno lavorato tutta una vita e sono devastate da questo senso di inutilità, tanto da andare fuori di testa. All’inizio gli ammortizzatori sociali aiutano un pochettino, ma poi più passa il tempo e più aumenta la disperazione e la perdita di ogni speranza, perché la mancanza di lavoro priva di dignità la persona, innescando una spirale negativa con situazioni pesantissime. È una cosa che mi dà molta tristezza».

Ad aprile avete aperto anche una comunità dedicata ai minori in età adolescenziale. Perché questa scelta?
«Perché in ogni percorso che affronta situazioni di bisogno, l’obiettivo è condurre la persona verso l’autonomia e l’affermazione della propria dignità. E quindi chi più di un adolescente puo’ rappresentare questo passaggio? In qualche modo chiudiamo il cerchio rispetto a tutti i nostri progetti perché agire su certe fasce di età significa anche fare  molta prevenzione».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 30 Aprile 2015
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