Amicizia e amarcord, la salvezza dai tempi della pandemia

Lo scritto del novelliere Carlo Banfi, di Brissago Valtravaglia dove in un'ambientazione nelle valli del Varesotto si parla di Sessantotto, amicizia e scene di vita perduta con lo sfondo dei giorni nostri

Generica 2020

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”
(Dante Alighieri: Inferno, XXXIV, v 139)

L’arca di Noè o del diluvio universale

Quel giorno Noè con la moglie, i figli Cam, Sem, Jafet e le mogli, e gli animali, maschio e femmina, puri e impuri, che aveva radunato o da lui erano venuti, si chiusero nell’arca perché sulla terra si era scatenato il diluvio. Di ogni alimento aveva fatto provvista perché servisse per tutti loro.
Piovve per quaranta giorni e quaranta notti e l’arca, di maestria d’ascia costruita con tronchi resinosi e di nera pece calafatata, si alzò sopra le acque.
Furono sommerse le montagne, e tutto quello che aveva respiro sulla terra rimase soffocato. Si salvò Noè e quelli con lui nell’arca, che galleggiò per centocinquanta giorni, finché al settimo mese approdò sulle cime dell’Ararat. Giorno dopo giorno le acque defluivano per lasciar riaffiorare le alte vette dei monti.

Noè prima liberò il corvo, che andava e tornava, finché la terra fu asciutta. Poi liberò la colomba che tornò, non trovando dove posarsi, e l’accolse porgendole il braccio. Dopo giorni la liberò di nuovo e rientrò verso sera con nel becco una fogliolina d’ulivo. Noè aspettò ancora e poi la lasciò uscire per la terza volta: non tornò più. Allora Noè scoperchiò l’arca e vide che la terra era asciutta.
Capì che era giunto il momento di dare la libertà agli animali tutti e ne offrì in sacrificio a Dio. “E il Signore odorò quella soave fragranza e disse in cuor suo: ‘Io non maledirò più la terra a causa dell’uomo, poiché i pensieri del cuore umano sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; non colpirò più ogni cosa vivente, come ho fatto. Finchè la terra durerà, semina e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte mai più cesseranno’”.

Chiuse la Bibbia. Rimase nel silenzio mentre dalla finestra osservava la montagna vestirsi di verde.
Le braci della stufa emanavano ancora un gradito tepore.
Si era ormai convinto che nei capolavori della scrittura di ogni tempo e luogo era racchiusa la sapienza del genere umano. Il sale della terra.
E se doveva scandagliare tra le scelte che avevano dato significato alle sue “opere e giorni” – Esiodo – sarebbe andato al “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,/ la quale ne sustenta et governa/ et produce diversi fructi con coloriti flori et herba”. San Francesco.
Ma forse le parole da una vita scolpite nel suo cuore erano “Vieni amato mio, usciamo alla campagna,/ passiamo la notte nei villaggi./ Al mattino andremo alle vigne,/ vedremo se gemma la vite,/ se sbocciano i fiori,/ se han fiorito i melograni:/ là ti darò i miei amori!”, Cantico dei cantici. Ancora la Bibbia.
Il giorno di pioggia gli impediva di raggiungere il campo dietro casa. Altro che diluvio! Erano quaranta giorni che non cadeva una goccia d’acqua. La superficie del terreno, preparato con la vanga per la semina, era polvere.

Anche in Canton Ticino avevano preso provvedimenti per lo scatenarsi del covid 19 e così la figlia svolgeva le sue mansioni amministrative da casa, in Italia. Smart working, ti suggeriscono i media. Suscitano quasi invidia per questa nuova capacità espressiva di linguaggio!
La ragazza di energie nella sua irruente giovinezza ne aveva! Dopo l’impegno profuso per l’azienda, per alleggerire la fatica del genitore ormai avanti con gli anni e con gli acciacchi del fluir del tempo, aveva dissodato riquadri nuovi in fondo al campo, strappandoli a un’erba infestante dalle radici tenaci come cordami. Aveva creato spazio per patate e granturco, cipolle e piselli…
‘Noè, se non proprio questi di viveri, certo ne aveva accumulati nell’arca! La nostra arca è la terra, oggi alla deriva nella tempesta; il sudore che sprigiona la fatica e le lacrime del cielo ridanno vita e testimonianza al patto col Creatore. E questo è bene’. Pensava il padre.
Prima del morbo aveva intuito che qualcosa di strano stava per accadere. Aveva sentito al telefono l’amico mugnaio che in valle manteneva funzionante l’antico mulino, con macina a pietra movimentata dalla caduta dell’acqua, deviata dal torrente e incanalata dalla sapiente fatica di secoli.
“Vieni!” – gli ha risposto. Nell’allegro frastuono dei marchingegni che quasi addormentati avevano ripreso vita, era un piacere odorare il profumo della farina e vedere danzare e sentire il fruscio dei chicchi leggeri nel setaccio, preparati con maestria per la molitura. Il raccolto era di pochi chili.

Stagione avara quella scorsa! Le pannocchie appese ad essiccare nel sottotetto erano pur sempre uno spettacolo di colori caldi e splendenti, quasi avessero rapito il sole dell’estate. La sgranatura e cernita a mano era meticolosa e solo il meglio era destinato alla tavola, il resto spettava alle galline, che ricompensavano con uova genuine, anche perché abituate a razzolare vicino casa, sempre sotto l’occhio attento per visite indesiderate di volpe e poiana, che sembravano aver dimestichezza della
zona. Custode vigile era il gallo, che il mese scorso lo aveva improvvisamente richiamato col suo rauco grido di pericolo; appena in tempo, perché di corsa, tralasciando senza indugio quello che aveva tra le mani, ha messo in fuga la poiana che si rotolava con la gallina bianca sotto il ciliegio.
Era indenne: il piumaggio fitto dell’inverno l’aveva risparmiata dagli artigli. Chissà come avrà fatto Noè a coordinare quell’accozzaglia!

Il gazzettino di primo mattino gli raccontava che ormai le strade erano semideserte. Non circolava quasi più nessuno, tranne gli autorizzati. Un vero miracolo su cui non ci avresti scommesso! Ma non si perpetuerà. Nei giorni lavorativi passati, gli intasi verso Milano o la frontiera del Cantone erano di chilometri a singhiozzo. Sui treni per pendolari e metrò, tutti stipati, come sardine. Diresti,
abbagliato, un unico cuore pulsante. Ma per quale vita? Quale società abbiamo costruito? Dove stiamo andando in compagnia di questa frenesia febbrile che tutto divora? Autostrade con colonne di tir, uno dietro l’altro, un vero lungo serpente dall’alito di veleno; un via vai senza sosta, tranne per qualche ora di tregua nel buio della notte. Carichi di merce di ogni genere fagocitata da mega centri commerciali, per poi disperdersi in mille rivoli luccicanti di ogni ben di Dio, per raggiungere case dove il superfluo spesso è regnante, come il vuoto che si crea nelle coscienze assuefatte.

Il suo amico anarchico che di tanto in tanto veniva per un caffè – ormai avevano chiuso tutti gli esercizi in quel paesino, abbandonato sulle pendici che risalivano scomode la montagna, assemblato in gran parte da nuclei dispersi troppo distanti dalla provinciale di fondovalle, e questo prima ancora che il coronavirus imponesse l’isolamento – aveva anche lui volontariamente scelto questo deserto, fatto di una quarantena povera di incontri, dopo gli aperitivi di anni addietro, al Giamaica, in via Brera a Milano, dove un quadro lo scambiavi con un piatto di minestra, nel brulichio di artisti, intellettuali e gente di tutti i giorni; con la scoperta della bottega di un vecchietto dove aveva appreso l’arte del restauro di mobili d’antiquariato, che gli aveva consentito un lavoro dignitoso e indipendente anche lontano dalla città. “Abbiamo messo in scena il paese di Bengodi – gli diceva tra un sorso e l’altro anche di un buon mezzo bicchiere di vino rosso centellinato in compagnia – e chi torna più indietro dalla cuccagna?”

C’è voluto il diluvio del coronavirus per sentire gli scricchiolii dell’arca. Le voci degli apocalittici – così almeno potevano apparire – risuonavano vuote nel deserto. Anche l’evidenza palese di accadimenti non più in sintonia con l’usuale, era tacciata di infondatezza e denigrata con l’indifferenza, per lasciare tutto com’era.

I due amici sorridevano alzando il calice al prosit e per evadere dai tristi presentimenti raccontavano del loro tempo. Delle battaglie vinte e di quelle perse. Della loro apparente resa nelle retrovie dei monti spopolati e inselvatichiti, nell’indomita ricerca di una vita più dignitosa di significato. Si erano improvvisamente trovati vecchi e superati dall’incalzante frenesia di una civitas in cui stentavano a riconoscersi. Forse non ci credevano più, anche se i loro occhi presbiti sapevano ancora intuire cosa accadeva lontano. E lo leggevano nella piccola realtà che li circondava e in cui si erano trincerati.
Quest’anno le temperature miti di fine inverno hanno dato il via precoce alla danza delle fioriture e poi una brinata improvvisa ha raggelato le tenere foglioline, che ancora compaiono avvizzite e non recheranno fiori e frutti.
Enormi cavallette dai lunghi voli, simili a piccoli uccelli, lasciano perplessi e stupiti. Non è facile catturarle quando non sono intorpidite dal freddo e per fortuna sono poche, perché annientano appetitosi germogli. Prodromi di bibliche piaghe? A sentire la moglie che si lamenta per la falcidia delle sue rose, sembrerebbe di sì.
In estate nuovi e sorprendenti prolifici insetti devastano granoturco e fagioli, e il raccolto si è ridotto alla metà, il resto va buttato. “I pesticidi che ti imbandiscono un frutto procace alla vista, forse recano più danno!” Gli suggerisce la semplice saggezza di quella donna che lo accompagna e sorregge tra baratri e nuvole.

Per non parlare del vortice che ha abbattuto scompigliandoli nell’intrico di chiome e tronchi, cespugli e radici e pietre insieme divelte, roveri, frassini, castagni, ciliegi secolari, bellezze pregiate del bosco, risparmiate come matricino dall’accorto taglio per l’approvvigionamento abituale della legna da ardere.
L’amico anarchico si è costruito un rifugio in cima alla Val Veddasca, dopo Monteviasco, paesino in sasso, con meno di dieci abitanti rimasti, ormai isolati perché la funivia non funziona più e per raggiungerlo ci sono di mezzo più di mille e cinquecento gradini!

L’amico doveva superare quel piccolo nucleo di case, zaino in spalla, con pendii irti e gli antichi tracciati in preda all’abbandono. Finalmente ecco la baita dispersa. Là non esistono più confini, terra e cielo e boschi e rocce e animali e erbe vivono liberi. Le acque precipitano irruenti a valle, limpide, a piacimento di natura imperante, non più imbrigliate e rese docili dal saggio e paziente lavoro umano. Alle folate delle intemperie, detriti di ogni genere si accumulano alla foce del torrente che li convoglia, quasi ‘faccian siepe’, mettendo a rischio le sprovvedute costruzioni del benessere lacustre.
Di fronte a fatiche secolari che hanno il sapore della forza dei giganti, e non più preparati alla quiete impressionante del silenzio che si accompagna alla solitudine, l’uomo di oggi si è arreso e ha venduto la sua primogenitura per un piatto di lenticchie.

Sorridevano i due amici. “I nostri anni li abbiamo spesi con i racconti dei vecchi partigiani delle osterie”. “Un calice con Pinelli l’ho sorseggiato, al ponte della Ghisolfa. Era una brava e buona persona”. Il sessantotto, l’autunno caldo, la protesta contro la violenza del terrorismo e della guerra li hanno visti sulle barricate, con l’entusiasmo del cambiamento nel cuore. Un mondo più giusto sembrava per nascere sotto i colpi dell’entusiasmo di milioni di giovani di ogni razza e fede.

Non è andata come hanno sognato e si sono ritrovati tra vecchi boscaioli, sfrosatori, frontalieri dalle mille ore di fatiche giornaliere… si sono riconosciuti in mille altre storie che raccontavano loro dell’uomo e della sua tenace lotta per la sopravvivenza. E quando il male di vivere diventava più forte e insistente, sorridevano ironici per quel soffuso lento torpore che era l’ammaestramento degli anni.

“Te ne racconto una, caro mio. Il vecchio ‘Doardo, del 1907, mi diceva che la nostra montagna, quella sopra l’Alpe San Michele, si chiama Pian della Nave perché lì è approdata l’arca di Noè.
Vedi quelle rocce bianche a precipizio? Quando era bambino e lavorava nei boschi, i taglialegna nelle pause del desinare, mentre preparavano una cartina col tabacco o il fornello della pipa e gli asinelli si godevano la quiete, liberi dal basto, gli han rivelato che là c’era l’anello a cui Noè ha legato l’arca ai tempi del diluvio e loro l’avevano visto e toccato. Gli uomini della razza del ‘Doardo erano i giganti che vivevano con la terra per tornare in pace alla terra. Veri discendenti di Noè!”

La tenacia, la fede e la pazienza di Noè hanno sconfitto il diluvio. Con speranza per primo liberò il corvo, che andava e veniva. Con ansia per tre volte liberò la colomba e ogni volta l’aspettò per ben sette giorni.
Altri due mesi di attesa ci vollero perché la terra fosse asciutta e solo allora liberò gli esseri viventi dell’arca, e i tre figli Sem, Cam e Jafet ripopolarono tutta la terra.

Carlo Banfi

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 16 Dicembre 2020
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