Guerra: anatomia di un fenomeno insopportabile e insopprimibile

Il vecchio motto latino "se vuoi la pace prepara la guerra" si è rivelato falso. Le nazioni hanno continuato ad alimentare l'economia di guerra. Nel 2020 la spesa militare globale ha sfiorato i 2000 miliardi di dollari

guerra ucraina civili

La guerra con le parole

Ho chiesto a Riccardo, mio figlio di 10 anni, cos’è la guerra. Ha risposto: «È una m…» . Uscendo dalla metafora, ha aggiunto: «La guerra è un combattimento tra Stati e anche tra bande rivali, come quella dei ragazzi della via Pal». E noi italiani siamo in guerra adesso? «Mentalmente sì». Durante la pandemia, fin da subito, non pochi hanno utilizzato l’attraente iperbole “siamo in guerra” (contro il virus), suscitando le reazioni allergiche di chi la Guerra, Grande e la Seconda Mondiale, e tutte le altre varie decine che le hanno seguite da qualche parte nel mondo, l’hanno fatta davvero. Ora c’è solo un uomo che si ostina a non voler chiamare quello che sta avvenendo in Ucraina guerra, il signor Vladimir Vladimirovič Putin (Vladimir significa “governo della pace”, che ironia). Lui preferisce l’annacquata “operazione speciale” e ha vietato ai media russi anche qualsiasi espressione limitrofa come invasione od occupazione – seguito a stretto giro dai cugini cinesi. Ma mentre disquisiamo intellettualmente sull’”elaborazione del lutto” dalla dissoluzione dell’Urss che spiega lo stato psicologico di Putin (Massimo Recalcati) oppure sulla “notte dell’informazione” in corso in Russia (Marta Ottaviano), la guerra è uno stato di fatto conclamato con effetti reali sulle persone e sull’economia anche del nostro Paese, sollevando vari problemi etici, tra i quali la responsabilità per l’impatto sui civili.
Dei 315 milioni di esseri umani uccisi nei cento massacri più rilevanti della storia, 266 milioni sono civili, a fronte di 49 milioni di soldati. La media dei civili morti durante le guerre è dell’85 per cento. Fonte: Matthew White, “Il libro nero dell’umanità. La cronaca e i numeri delle cento peggiori atrocità della storia”. Per evitare le conseguenze legali e politiche sancite dall’Onu, nessuno Stato è disposto a dichiararsi aggressore con una dichiarazione di guerra, mentre infiniti sono gli appigli per dichiararsi aggredito. Dal 1945 ad oggi, tutti i presidenti Usa hanno iniziato una guerra, o l’hanno continuata (https://www.agi.it/blog-italia/idee/guerre_usa_presiedenti-6849205/post/2020-01-08/). Ma la serie pressoché ininterrotta di conflitti che ha segnato gli anni 1990 e i primi del 21° sec., ha evidenziato che i tradizionali conflitti tra Stati stanno cedendo il passo a nuove forme di conflittualità. Siamo passati via via dalla guerra tradizionale internazionale, a quella assoluta, a quella fredda (NATO e Patto di Varsavia), fino a forme diffuse di “privatizzazione della guerra” e a un proliferare di nuove forme che rendono irriconoscibili i confini tradizionali tra le varie forme di violenza organizzata e che si alimentano con le retoriche del nazionalismo etnico, fondamentalismo religioso o scontro delle civiltà. Il modo più moderno e potente di coinvolgere i civili nei conflitti è attraverso la comunicazione. “Uno degli aspetti terribili della guerra è che radicalizza senza spazi per le riflessioni. C’è più propaganda che informazione che passa e si fa fatica a sapere la verità delle cose”, mi dice Marco Giovannelli, direttore di Varesenews. Diventa sempre più chiaro che “c’è un nuovo attore predominante nella società iper-connessa, importante quanto i missili, che può determinare l’esito stesso del conflitto” aggiunge Michele Zizza, professore di Culture Digitali. «La comunicazione è alleata dell’Ucraina e nemica della Russia. Esempi: l’ambasciatore ucraino all’Onu che legge gli ultimi messaggi di un soldato russo alla madre; il presidente Zelens’Kyj che narra la “resistenza presidenziale” attraverso Twitter; i cittadini che filmano o fotografano ogni istante e li caricano in rete con i colori della bandiera; il racconto del dramma umanitario; le capacità belliche sfoggiate e la resistenza civile».

La guerra con le armi

Ci sono svariate classificazioni possibili della guerra: convenzionale e non convenzionale; ad alta e bassa intensità; con armi di distruzione di massa (nucleare, batteriologica o chimica). Nell’era contemporanea, i criteri empirici come il numero delle vittime, le armi impiegate, le dichiarazioni di guerra, i rifugiati, risultano largamente insufficienti a chiarire i fenomeni complessi e ambigui che caratterizzano sempre di più la nostra società globalizzata. L’Istituto Heidelberg per la ricerca sui conflitti internazionali definisce il conflitto politico come una differenza di posizione tra almeno due attori assertivi e direttamente coinvolti riguardo ai valori rilevanti per una società che viene attuata utilizzando misure di conflitto osservabili e interconnesse che esulano dalle procedure di regolamentazione stabilite e minacciano le funzioni fondamentali dello stato, l’ordine internazionale, o hanno semplicemente il potenziale per farlo. Facciamo qualche esempio attuale. Attori: Putin, il Papa, Macron. Misure: invasione, spionaggio, sabotaggio, sanzioni, no-fly zone, apertura e chiusura dei confini, aiuti umanitari, assistenza militare e logistica. Secondo l’ultimo Conflict Barometer nel mondo ci sono 359 conflitti di cui 220 violenti, tra i quali 40 guerre, di cui 21 ad alta intensità in Afghanistan, Libia, Siria, Turchia, Yemen, Congo, Etiopia, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Mozambico, Somalia, Sud Sudan, Brasile, Armenia, Azerbaijan. La situazione in Ucraina era già considerata nel 2020 a livello 4 “guerra limitata” (https://hiik.de/wp- content/uploads/2021/05/ConflictBarometer_2020_2.pdf). La mappa mondiale mostra che solo in pochi Paesi del mondo ci sono situazioni prive di conflitto. La pace non è un bene diffuso, oltre che non garantito. Non lo è mai stato. In passato si presumeva che i primi popoli nomadi fossero più pacifici rispetto ai loro omologhi coltivatori sedentari degli anni successivi, ma i ritrovamenti dei luoghi di sepoltura di massa in tutto il mondo hanno portato gli studiosi a rivedere questa teoria.

Siamo sempre in guerra anche perché il business della guerra è immenso e non ha preso il Covid. Nel 2020, la spesa globale militare stimata corrisponde a 1.981 miliardi di dollari: un aumento del 3% rispetto al 2019 e del 9% rispetto al 2011. I principali Paesi sono gli USA con 778 miliardi di dollari, Cina con 252 miliardi di dollari (+76% rispetto al 2011), India e Russia con una spesa rispettivamente di 73 e 62 miliardi. Anche nei Paesi UE si è registrato un aumento della spesa militare che nel 2020 è stata di 378 miliardi di dollari (+4%), con Francia e Germania, in cima alla lista. I maggiori importatori di armi sono Arabia Saudita, India, Egitto, Australia e Cina. Mentre l’esportatore per eccellenza è l’USA, seguito da Russia, Francia, Germania e Cina. Questi cinque Paesi rappresentano il 76% del volume totale. Anche in Italia, sesta nel mondo, il settore dell’Aerospazio, della Difesa e della Sicurezza è assolutamente strategico. Da un lato, ci fornisce strumenti e capacità per la difesa dell’interesse nazionale e per la sicurezza. Dall’altro, è uno strumento di influenza geopolitica. Il settore vale 14 miliardi di euro con una quota di 70% di export.

Le nuove guerre sono una linfa vitale per questo settore. L’UE ha annunciato che acquisterà e consegnerà 450 milioni di euro di armi all’Ucraina. La Svezia offrirà armi anticarro. La Francia ha garantito attrezzature per la difesa e sistemi di supporto per il carburante. Belgio e Paesi Bassi forniranno armi e dispositivi di protezione, e anche 200 missili anti-aerei Stinger. Anche Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Regno Unito, Australia, Turchia, Canada e Italia forniranno equipaggiamento militare. Gli Stati Uniti hanno impegnato 350 milioni di dollari in aiuti militari e oltre 90 tonnellate di rifornimenti militari, in aggiunta ai 650 milioni di dollari nel solo anno passato. Piaccia o no è un settore strategico che contribuisce al PIL di molti Paesi, anche se spesso tendiamo a dimenticarcelo.

La guerra si combatte con il pane

Chiedersi se siamo o no in guerra, in un mondo globalizzato e interdipendente è la domanda sbagliata perché siamo sempre in qualche forma di conflitto. Purtroppo, è anche vero che il motto pro-spese militari “Se vuoi la pace, prepara la guerra” di Publio Vegezio Renato si è rivelato una fandonia: nonostante la crescita delle spese militari i conflitti sono solo aumentati nel XX e XXI secoli. La crescita delle disuguaglianze, il sovraffollamento del pianeta e l’accelerazione del riscaldamento globale, sono solo alcune delle sfide che seminano i conflitti del presente e del futuro. Una credibile politica globale di riduzione dei conflitti passa attraverso una perseverante politica democratica per i diritti sociali. Pace non significa soltanto assenza di conflitto evidente: soltanto una pace giusta, che si basi su diritti e dignità di ogni individuo, è una pace veramente duratura. Pace è lavoro, è una distribuzione più equa di ricchezze e risorse, è uno sviluppo sostenibile, è lotta contro le crescenti diseguaglianze tra i Nord e i Sud del pianeta, è pari opportunità di genere, è istruzione. Pace è tutto questo insieme perché i diritti non si mangiano.
“Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra”, papa Francesco.

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Pubblicato il 21 Marzo 2022
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