“Quelle come me non si sposano”: in aula a Varese parla la vittima del padre padrone
In un processo per violenza sessuale escono tutti i mostri del nostro presente: l’imposizione della violenza di genere contro l’emancipazione femminile

“Avevo vent’anni, nel ‘98, ed eravamo andati a vivere insieme. I primi dieci anni, in Sicilia, sono stati tranquilli: eravamo a casa di mia mamma e l’unica cosa che mi controllava erano i soldi. L’unico episodio è stato un primo schiaffo che mi ha rotto il timpano. Già lì avrei dovuto andarmene”.
Perché poi è arrivato l’inferno secondo la ricostruzione fatta in aula da una donna parte offesa di un processo per abusi sessuali e violenze dove la vittima ha descritto l’ex compagno come “padre padrone”. I due si conoscono e parte la convivenza che all’inizio sembra funzionare, coi figli nati dalla relazione, e poi lo spostamento al Nord. Lì cominciano i problemi: il marito voleva ritornare al Sud, e smise di lavorare.
“Io allora venni assunta all’Autogrill, ma lui voleva controllarmi: mentre lavoravo al bancone stava ore a guardarmi. A controllarmi”. Poi le frasi: “Non voleva sposarmi perché mi diceva che quelle come me non si sposano” – ha raccontato la donna sentita oggi in aula davanti al Collegio di Varese – “solo perché mia madre si era lasciata con mio padre e perché mia sorella aveva un altro. Per lui tutte le donne erano prostitute”.
Nonostante questo la coppia con grande fatica continua a stare insieme nei primi due anni passati in una città del settentrione. “Poi ho scoperto che il giorno in cui era nata una delle Ie figlie era andato con una prostituta assieme ai nipoti. Allora ho aperto gli occhi e tutto ha cominciato a cambiare”. Però arrivano anche le promesse, le richieste di perdono dell’uomo, classe 1973, e l’occasione forse della vita: un lavoro in Svizzera e il trasferimento in provincia di Varese in un Comune vicino al confine, dove cominciano le violenze alimentate da sospetti nati da un contesto possessivo, gelosia all’estremo sfociata in aggressioni verbali e fisiche, anche di fronte ai figli.
Il racconto della donna in aula ha ricostruito una cappa di oppressione fatta di preconcetti maschilisti e arcaici dovuti a un’idea della donna come oggetto di sua proprietà. La molla che fa scattare la denuncia, sporta dalla donna il 13 dicembre 2017, era la crescente ossessione dell’uomo che pretendeva vere e proprie ispezioni corporali per verificare se la donna aveva avuto rapporti sessuali con altri a tal punto da indurre la compagna a non sottrarsi alle sue richieste di sesso per non indispettirlo, “altrimenti pensava che io fossi stata con un altro”.
E poi la questione del cane: la donna afferma di aver visto l’ex compagno mentre si faceva leccare le parti intime dall’animale: “Ne ho parlato con una psicologa. E mi ha aperto gli occhi. Da quel momento ho cominciato a dormire sul divano e ho rifiutato di avere rapporti sessuali col mio ex”. La procura (pm Giulia Grillo) oltre alla violenza sessuale contesta anche le aggressioni fisiche alla moglie e ai figli: per questo la donna ha potuto accedere a strutture protette di comunità.
La vicenda è arrivata in aula dinanzi al collegio presieduto dal giudice Andrea Crema. Il difensore dell’uomo – per il quale vale la presunzione d’innocenza – è l’avvocato Simona Ronchi, quello di parte civile Claudia Cornacchia.
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