Piena occupazione, povertà diffusa: quando il lavoro non basta
Alla Liuc un evento patrocinato da UCID accende i riflettori su un tema cruciale per l’Italia e l’Europa: la povertà non più solo disoccupata, ma spesso occupata
Quando si parla di lavoro e di povertà bisogna partire dai numeri e analizzarli a fondo. Il percepito in positivo e in negativo non serve a nulla se non ad alimentare la propaganda. L’analisi dei numeri fatta da Niccolò Comerio, giovane ricercatore in Politica economica della Liuc, durante l’incontro “Lavoro povero… o povero lavoro”, organizzato dall’Ucid, ha messo a nudo una realtà contraddittoria: in Italia c’è la piena occupazione ma spesso si tratta di lavoro povero.
I più recenti dati Eurostat e Istat restituiscono un quadro allarmante: nel 2023, un europeo su cinque, pari a 93 milioni di persone, è risultato a rischio povertà o esclusione sociale. L’Italia si colloca tra i peggiori, con il 23% della popolazione – oltre 13 milioni di cittadini – in condizione di vulnerabilità economica. Di questi, il 10,9% è composto da lavoratori, i cosiddetti working poor.
Eurostat definisce la povertà sulla base di tre criteri: reddito insufficiente, deprivazione materiale (incapacità di sostenere spese essenziali come affitto, alimentazione e abbigliamento) e bassa intensità lavorativa (meno del 20% del potenziale orario annuale impiegato). «Oltre 5 milioni di europei – ha sottolineato Comerio – vivono tutte e tre queste condizioni contemporaneamente».

Il quadro italiano, confermato anche dai dati Istat, presenta profonde disuguaglianze geografiche, anagrafiche e sociali. Al Sud la percentuale di occupati a rischio povertà supera il 20%, mentre al Nord si ferma al 5%. Tra gli stranieri extracomunitari, la percentuale sale al 25%, e tra i giovani tocca picchi ancora più alti. «La disoccupazione generale è in calo – ha osservato Comerio – ma resta altissima tra i giovani e le donne. Il tasso di occupazione femminile in Italia è del 53%, uno dei più bassi in Europa».
A completare il quadro, l’analisi delle tipologie contrattuali e dei salari reali. Secondo i dati ministeriali illustrati da Comerio, nel 2023 sono cresciuti i contratti di collaborazione e quelli a termine, mentre sono diminuiti gli indeterminati. Allo stesso tempo, il potere d’acquisto dei salari è crollato: l’Italia è il fanalino di coda del G20, con un calo del -8,7% dal 2008. «Dal 1998 c’è stato un calo vertiginoso e continuo del valore del salario in termini reali – ha sottolineato il giuslavorista Alberto Guariso-. Ci sono tre grandi temi: la frammentazione dei cicli produttivi con le catene di appalti e subappalti, la mancanza di investimenti con la conseguente riduzione di tutele dei lavoratori, il che significa più flessibilità. Nel nostro caso più occupazione non significa maggiore ricchezza, anzi l’esatto contrario».
Uno dei fattori che determina la diminuzione dei salari reali riguarda la produttività che non aumenta. «Per aumentare la produttività – ha spiegato Eliana Minelli, delegata del rettore alla New Generation – servono investimenti in innovazione tecnologica e formazione. Investire in competenze e conoscenza vuol dire dare un senso al lavoro. Il lavoro senza senso è un lavoro povero».
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