Abbassare i toni, e tenersi per mano
In un mondo che si urla addosso, ritrovare il senso del tocco e della vicinanza è un gesto rivoluzionario

Questa settimana ho stretto molte mani. Una di un potente capo globale, turgida, dolce, affettuosa, inattesa, lenta. Di una donna certamente attraente, rigida, secca, corteccia, veloce, letale. Molte altre, bollenti, bruciate, brevi, brave, burbere, belle, beate … Tutte mi hanno lasciato un’impronta e l’hanno presa della mia, oppure no. Ecco, davanti al teatro dell’assurdo che anche questa settimana, ci siamo inflitti (paperone che litiga con Mr. Disney; morti stranianti, in gruppo e solitudine, e perfino il diluvio di goal che ci siamo presi in Norvegia), scusate, mi viene una reazione di riflusso.
Una voglia di tornare all’inizio e ricominciare, dalle mani.
Stringersi la mano è un gesto che compiamo quasi automaticamente, spesso con il pilota automatico, ma che racchiude millenni di storie, culture, cure. Mi sono chiesto quale sia il suo
significato profondo, ontologico. E da lì, come una ragnatela che si espande, ho iniziato a riflettere sul senso di questo senso, il toccare, da quello tra esseri umani, e anche quello più viscerale e
immediato, con gli animali. Accarezzare un gatto o lasciarsi leccare da un cane ci restituisce un linguaggio originario, che forse oggi, almeno nella nostra società occidentale, pare sempre più
anestetizzato, ridotto a margine, relegato alla sfera dell’intimità o della cura.
Il tatto è il primo senso che si sviluppa nel grembo materno. È anche l’unico che non possiamo “spegnere”: la pelle è una soglia viva tra il mondo interno e il mondo esterno. Non possiamo
non sentire. Toccare è sempre anche essere toccati. Da questo punto di vista, il tatto è il più “relazionale” dei sensi: ci ricorda che non esistiamo come monadi isolate ma come corpi che
entrano in relazione.
Ma ogni rosa ha le sue spine. In molte culture, il tatto è considerato sacro, e anche pericoloso. Quindi va codificato, limitato, ritualizzarlo. Nella parte del mondo che abitiamo, iper-igienizzata,
iper-digitalizzata, iper-consapevole del consenso, iper e basta, abbiamo anestetizzato il tatto sociale, rendendolo un fatto privato o eccezionale (cura, sesso, violenza, sport). Con la pandemia lo
abbiamo anche bandito. Ma non lo abbiamo cancellato e possiamo rifondarlo.
Stringersi la mano è un gesto antichissimo. Nella Grecia antica significava parità, non belligeranza: mostravi che non impugnavi armi. Era un patto. Nella sua forma più originaria è
un’offerta di fiducia, un microcontratto fisico: ti tocco, mi espongo, riconosco la tua presenza. È anche un gesto di trasferimento simbolico: nella stretta, passano esperienze, storie, calli, tremori. Le mani sono archivi viventi. Quando si stringono, si crea un cortocircuito tra due biografie corporee. Non è solo un gesto formale: è una microstoria d’incontro. Nelle culture dove la stretta di mano non è usuale, spesso il saluto è comunque un rituale di prossimità fisica mediata: l’inchino giapponese (che è un “toccare” il suolo comune col corpo), il naso a naso maori, il bacio sulle guance in Europa latina. Toccare o evocare il tocco è universale, anche quando lo si evita.
Le mani sono i nostri primi strumenti. Sono prolungamenti del pensiero ma anche rivelatori del sentire. Si prendono cura, ma sanno anche distruggere. Accarezzano un neonato e strangolano un nemico. Sono ambivalenti, proprio come la natura umana. La mano che stringe può essere quella che poi colpisce. Ma nella sua forma più pura, la stretta è una sospensione della violenza. Come se dicessimo: “Scelgo di incontrarti, non di difendermi da te”.
Accarezzare un cane, un gatto, lasciarsi leccare da loro, è un’esperienza di contatto non mediata dalla razionalità. Lì il tatto ritorna a essere istintivo, gratuito, privo di rappresentazione sociale.
Forse è per questo che ci consola così tanto: ci restituisce alla parte più affettiva e immediata del nostro essere corporei. In quel gesto siamo presenti e vulnerabili, ma senza doverci spiegare.
Forse ciò che manca nella nostra società non è il tocco in sé, ma una cultura consapevole del tatto. Un’etica che lo restituisca al suo valore ontologico: il tatto come contatto che costruisce relazione. Come gesto che può essere cura, riconoscimento, tregua (!), scambio, alleanza. Riscoprire il significato profondo del toccarsi, con rispetto, con intenzione, con presenza, potrebbe essere un atto rivoluzionario in una società che ha paura del corpo ed è ossessionata dalla performance.
Se andiamo a votare, e non tocchiamo le schede, magari possiamo stringere, con grazia, le mani, anche di quelli che non ci andranno.
“La mano che si tende è già un gesto di pace”, Thich Nhat Hanh.
TAG ARTICOLO
La community di VareseNews
Loro ne fanno già parte
Ultimi commenti
Felice su Il pericoloso gioco alla stazione Ferno-Lonate: ragazzini attraversano i binari nel tunnel
lenny54 su È arrivato il gran giorno a Monteviasco: dopo sette anni di stop riparte la funivia
Adriana Andriani su Bogno, la Fondazione Sacro Cuore in liquidazione. Bini: "Non c'erano le condizioni economiche per proseguire"
Bruno Paolillo su Ottant’anni fa Hiroshima: la memoria della bomba che cambiò il mondo
PaoloFilterfree su Vigili del fuoco, organico solo sulla carta: Candiani denuncia l’abuso delle leggi speciali. "Vuote anche le case Aler in convenzione"
Alessandro Zanzi su Crescono le diagnosi di disabilità tra i minori di Varese: +500% in 10 anni
Accedi o registrati per commentare questo articolo.
L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.