Poesia, speranza e resistenza: il concerto di Bruce Springsteen a San Siro a Milano
A quarant'anni da quello del 21 giugno 1985, il Boss non ha voglia di uno show celebrativo. Suona molto di Born to run, ma soprattutto lancia un messaggio sull'attualità, ai tempi di Trump

Bastano un pugno di canzoni per capire che il concerto di Bruce Springsteen a Milano, in questo 2025, è il più politico degli show portati sul palco con la E-Street Band.
Un grido di rivolta, resistenza e speranza, interpretando l’America anti-Trump.
Esordisce con No Surrender, canzone-manifesto che è romantica ma si può leggere anche come dichiarazione di resistenza.
«L’America della speranza è nelle mani di una amministrazione incompetente», dice prima di attaccare un set di canzoni che comprende Land of hope and dreams, Death to hometown, Lonesome Day (dai giorni dell’11 settembre), poi Rainmaker cantata proprio “per il caro leader”, Trump.
C’è poi un nucleo centrale di canzoni che è lo Springsteen più lirico (The river con il finale sussurrato e in falsetto, Atlantic City) e quello epico di Promised land, Youngstown, Badlands.
L’America degli operai dimenticati dopo che hanno reso ricchi i potenti, di quelli che hanno troppi debiti da pagare, dei migranti sotto ai ponti braccati dalla polizia, del povero che diventa sempre più magro mentre il ricco ingrassa. E insieme l’America della speranza che risiede come una fede anche negli ultimi.
Springsteen ai tempi dell’America di Trump
Prima di attaccare My city of ruins si lascia andare ad un lungo intervento a voce, interrotto spesso da applausi: «Ho sempre cercato di essere un buon ambasciatore americano. Ho passato la vita a cantare i nostri successi, i nostri fallimenti, i nostri sogni, ma le cose che stanno accadendo alterano la vera natura della democrazia del mio Paese».
Cita i migranti che portano avanti le città e vengono braccati, le università messe sotto accusa perché non si allineano. I sottotitoli compaiono a raccontare le canzoni più recenti, come The house of thousand guitars, altro inno di resistenza.
Concerto di Springsteen a Milano: in scaletta l’omaggio a Born in the Usa
A trent’anni dal mitico concerto del 21 giugno 1985, c’è ovviamente spazio per un bel nucleo di pezzi da Born in the Usa: Bobby Jean, I’m on fire, Dancing in the dark, oltre alla canzone che dà il titolo all’album e che viene accolta dalle luci che si accendono d’improvviso.
L’immancabile, trascinante omaggio a Clarence Cleamons e Danny Federici, con Tenth Avenue freeze out, precede il finto finale da ballo collettivo con Twist and shout., festa per almeno quattro generazioni di springsteeniani.
Chimes of freedom di Dylan chiude il concerto a San Siro
Il vero finale in questo tour è affidato però ad un’altra cover, Chimes of freedom di Dylan: senza finte uscite dal palco, il concerto si chiude con l’inno di libertà che risuona per i guerrieri la cui forza è nel non combattere, per i rifugiati sulla innocente via della fuga, per ogni anima gentile e innocua che sia seppellita in una prigione.
Un concerto di speranza, stretti gli uni agli altri, nel mezzo di tempi bui.
Nello stadio di San Siro che forse a breve verrà abbattuto, risuonano i versi di Wrecking ball, la canzone che sfida alla palla demolitrice che ha fatto a pezzi lo stadio Dei Giants nel Nes Jersey, demolito nel 2010: i tempi duri arrivano, i tempi duri se ne vanno, arrivano di nuovo. Fatti sotto, Bruce Springsteen è qui per farsi sentire e non è solo.
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Ho visto il concerto di giovedì 3 luglio. poche storie: il Boss è sempre il boss. 28 brani a raffica, senza un esitazione. tre ore di live alla grande un emozione dietro l’altra in continuo crescendo. Non sono mai abbastanza i suoi live! al netto della solita penosa acustica di San Siro, ma si sa, li c’è poco da fare, o meglio da rifare tutto lo stadio. Dopo questa doverosa premessa due parole extra musica: si sa che lui è da sempre schieratamente, convintamente militante democratico. Personalmente invece, se fossi in cittadino statunitense sarei di posizioni probabilmente più vicine al partito repubblicano, sebbene non su tutti i temi, vedasi in primis il famigerato secondo emendamento che da ipotetico cittadino americano vorrei veder riformato al fine di porre una forte stretta sulla libera circolazione delle armi. Dicevo che, con tutti i se del caso sarei stato probabilmente di ispirazione repubblicana. Ma di fronte al dilemma di dover votare uno come Trump, avrei certamente disertato le urne, o meglio ancora lasciato scheda bianca. A tutto c’è un limite, e se politicamente non la vedo come la vede il boss, le parole che ha pronunciato durante il concerto, nel intermezzo parlato del brano “My city of ruins” mi trovano sostanzialmente d’accordo.