Il Nord America visto dai sedili di Uber
Storie di emigranti, sogni e contraddizioni tra Canada e Stati Uniti - di Giuseppe Geneletti

Il Nord America si lascia raccontare meglio dai sedili posteriori di un’auto Uber che dalle pagine dei manuali. È lì che emergono le vite intrecciate di chi è arrivato da lontano, con valigie cariche di speranze, paure e contraddizioni.
A Toronto mi è capitato di salire sulla macchina di un cinquantenne iraniano. Vive in Canada da tre anni con la famiglia, uno dei figli ha fatto parte della Guardia nazionale militare. Aspetta la cittadinanza, che dovrebbe arrivare tra un paio d’anni, e già sogna di tornare in Iran, convinto che le cose cambieranno, che Trump e Israele libereranno il suo Paese, come a suo dire hanno già iniziato a fare con i bombardamenti recenti. Intanto, però, spera che il figlio resti a Toronto, a costruirsi un futuro migliore. Lui, in Iran, era impiegato in una grande azienda meccanica. Qui guida un’auto per far quadrare i conti.
Dall’altra parte del confine, a Boston, un sessantenne pakistano mi ha raccontato una storia diversa ma speculare. Vent’anni negli Stati Uniti, figli ormai al college, due anni ancora prima della pensione. Nel frattempo ha aperto un ristorante a Medford, “Zam Zam”. Aveva votato Trump, deluso da Biden, ma oggi dice che l’attuale presidente è «completamente fuori di testa». Lo dice da imprenditore: tre studentesse lavoravano nel suo locale senza permesso, mantenendosi con piccoli lavori, ma ora hanno dovuto smettere per paura dei controlli. Un sistema che per anni aveva funzionato, all’improvviso si è incrinato. E quando allarga lo sguardo, il suo pensiero corre al Medio Oriente: «Due stati, Israele e Palestina, veri, funzionanti. E basta guerre preventive come in Iraq: Saddam potevano fermarlo in altro modo».
Tra Toronto e Boston, tra Canada e Stati Uniti, le storie cambiano ma si specchiano. Tutte portano con sé un bagaglio di nostalgia e di futuro, di fede cieca e disincanto.
C’è anche Giovanni, 65 anni, guida turistica alle cascate del Niagara. Nato in Molise, emigrato bambino, è cresciuto in Canada con un fortissimo accento italiano che non lo ha mai abbandonato. Conosce tutti, soprattutto gli italoamericani che hanno fatto fortuna con hotel, ristoranti e vigne. Lui ogni giorno ascolta Radio Rai Uno e legge i giornali italiani. E con la sua ironia tagliente ricorda: «Qui non c’è storia. La storia sta in Europa e in Medio Oriente. Qui ci sono natura e città nuove di zecca, perché ogni generazione cancella la precedente e ricostruisce sopra».
E infine c’è il tassista marocchino di Boston, trentenne, già ventimila corse alle spalle, punteggio quasi perfetto: 4,99 su 5. Un mago dell’accoglienza. Mai stato in Italia, ma conosce tutto del Milan, dell’Inter, del Napoli, di Conte, dei campionati europei. A parlare con lui sembra quasi che i chilometri si annullino.
Ho vissuto negli Stati Uniti per sette anni. Ho lavorato in aziende americane per un quarto di secolo e ancora oggi collaboro regolarmente con loro. Sono convinto che una delle caratteristiche più potenti di questa cultura sia la narrazione: la capacità di illuminare elementi semplici, a volte banali, con uno sguardo sempre un po’ ingenuo ma potentissimo. È lo sguardo del “sogno americano”: la corsa, l’alloro, la possibilità per tutti.
Lo scrivo da Boston, città simbolo della nascita degli Stati Uniti. E dal cuore di un albergo che porta il nome di Paul Revere, l’uomo passato alla storia per aver acceso una lampada su un campanile e avvisato i ribelli che le truppe inglesi stavano arrivando dal mare. Un gesto minimo, diventato mito. Una sorta di Garibaldi americano. Loro hanno questa dote: sanno raccontare e raccontarsi, senza smettere mai. Forse è questo il vero filo rosso che unisce tutte le storie di questo continente.
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