L’Italia, la sovranità e il peso invisibile

Da Parma a Varese: tra storie locali e grandi potenze, un Paese che conta più per creatività che per forza politica

sovranità geneletti

Parma, una sera di fine agosto. Non un concerto, non una festa popolare, ma insieme alle colleghe decidiamo di andare ad ascoltare un’intervista pubblica. Non siamo soli. In mezzo alla settimana, si sono radunate trecento persone su una terrazza affacciata sul cielo della città. È già un segnale: in Italia, in tempi di distrazione digitale e sfiducia diffusa, c’è ancora un bisogno di capire, di fermarsi ad ascoltare.

Sul palco, Alessandro Orsini. La sua tesi più forte: l’Italia non è uno Stato sovrano. Anzi, è uno stato satellite. Due episodi a sostegno. Matteo Renzi, che gli avrebbe raccontato di un candidato al Quirinale scartato perché sgradito agli americani. Giorgia Meloni, che avrebbe interrotto i rapporti commerciali con la Cina dopo una richiesta pressante di Trump. Vicende che da sole potrebbero sembrare aneddoti, ma che inserite in un discorso più ampio diventano prova di un teorema: la nostra politica estera non sarebbe frutto di scelte autonome, bensì di condizionamenti. La maggior parte della stampa, secondo Orsini, sarebbe intimorita dagli Stati Uniti al punto da non potersi esprimere liberamente, soprattutto sulle questioni internazionali e geopolitiche. 

Sovranità: un mito italiano. Una di noi ci interroga. Che cos’è davvero la sovranità? Ma è proprio così? Giuridicamente, l’Italia è sovrana: ha un governo, un esercito, una Costituzione. Ma se guardiamo alla storia lunga, la nostra sovranità è stata più un mito che una realtà. L’unica vera eccezione, se vogliamo, è stata Roma: nei secoli dell’Impero, il territorio che oggi chiamiamo Italia non solo era sovrano, ma dominava gran parte del mondo allora conosciuto. È un contrasto che colpisce: da culla del potere egemone a campo di conquista delle potenze europee.  Qui si apre un altro nodo: la differenza tra Paese e Nazione. L’Italia è stata a lungo una Nazione culturale, lingua, arte, identità, senza essere un Paese unitario. 

Per secoli l’Italia è stata un campo di conquista. Dopo la caduta dell’Impero Romano, Longobardi, Franchi, Spagnoli, Austriaci, Francesi hanno dominato la penisola. Le città-Stato del Rinascimento erano ricche e brillanti, ma troppo divise per contare. Lo Stato della Chiesa ha esercitato un controllo politico che ha frenato ogni progetto unitario. Dal Cinquecento in poi, il nostro Paese è diventato il giardino d’Europa: ammirato per arte e cultura, ma senza chiavi di casa propria. Prima gli spagnoli, poi gli austriaci, poi Napoleone: tutti hanno messo il cappello sull’Italia.

Quando finalmente nel 1861 nasce il Regno d’Italia, la sovranità è più formale che sostanziale. L’Italia unita è fragile, povera, costretta a inseguire alleanze esterne per contare. Mussolini cercherà di rovesciare questo destino proclamando l’Italia “impero”, ma finirà per diventare satellite della Germania nazista. Dopo il 1945, con la Repubblica, la sovranità si sposta sotto l’ombrello americano. Il Piano Marshall e la NATO garantiscono stabilità, ma sanciscono un rapporto di dipendenza. Molti storici parlano di protettorato USA durante la Guerra fredda. Eppure, dentro questa cornice, l’Italia conosce decenni di crescita, pluralismo, cultura democratica. Con l’Unione Europea e l’euro, la dipendenza cambia volto: non più militare, ma economica. Vincoli di bilancio, regole di Bruxelles, mercati finanziari. Una democrazia vincolata, più che un Paese libero di decidere da solo.

Satelliti o Stati? E qui viene naturale il paragone: San Marino vive in simbiosi con l’Italia. L’Albania guarda a Roma e Bruxelles come poli decisivi del proprio sviluppo. Malta resta nell’orbita inglese. La Russia stessa, oggi descritta come potenza autonoma, si trova in realtà sempre più dipendente dalla Cina. Nemmeno Francia e Germania sono completamente sovrane. Allora, cos’è l’Italia? Non una dittatura, perché i cittadini votano (ancora), discutono, contestano, viaggiano, ma certo uno Stato che non può mai permettersi di decidere del tutto da solo.

Un peso che non è politico. Eppure, c’è un altro lato della medaglia. Perché se il peso politico e militare dell’Italia è scarso, il peso culturale resta enorme. Basta viaggiare per rendersene conto. Il Novecento e il Duemila sono pieni di episodi di vita quotidiana dal marchio italiano: la Vespa, l’Olivetti, la Fiat 500, il caffè espresso, il cinema di Fellini, i transistor di Fermi, il packaging alimentare, la moda, il design, l’architettura. Persino Internet ha radici italiane, con le prime reti universitarie connesse a Pisa.

E questo filo globale parte anche da luoghi che consideriamo “di provincia”. Da Parma, per esempio, il pomodoro in lattina di Collecchio ha cambiato la dieta mondiale; Barilla, dal forno di via Vittorio Emanuele nel 1877, è diventata multinazionale con la pasta come ambasciatrice italiana; Parmalat, dagli anni ’60, con il latte a lunga conservazione ha modificato abitudini alimentari in mezzo mondo.

E da Varese, Giovanni Borghi e la Ignis, con gli elettrodomestici nati a Comerio che hanno portato il frigorifero italiano nel mondo, anticipando la “casa moderna”; l’idrovolante di Sesto Calende (Caproni e poi Siae Marchetti), che negli anni ’20 e ’30 ha rappresentato un centro di innovazione dell’aviazione civile e militare capace di volare in tutti i continenti (e oggi Leonardo); la tradizione del gelato industriale (Algida, Sammontana di Cassano Magnago, poi Unilever) che ha fatto del gelato varesotto un fenomeno globale;  Schegge di luce locali che diventano influenze globali, spesso più incisive dei trattati e delle alleanze politiche.

La forza della formazione umanistica. Il nostro sistema universitario, con tutti i suoi limiti, continua a formare menti brillanti. Un sistema ancora profondamente umanistico, che intreccia tecnica e cultura. Un ingegnere italiano porta con sé Dante e la filosofia, non solo formule. È questa formazione a generare creatività e connessioni che altrove non si vedono. Poi certo, c’è la diaspora. I giovani migliori spesso lasciano il Paese. Lo chiamiamo fuga dei cervelli, ma è anche un’esplorazione naturale: come Colombo, cercano spazi di libertà e opportunità. Non è una perdita secca, è anche un modo per diffondere l’Italia nel mondo.

Una superpotenza invisibile. Ecco il paradosso: politicamente siamo un Paese debole, ma culturalmente siamo una superpotenza invisibile. Non imponiamo regole, ma generiamo idee. Non controlliamo mercati, ma influenziamo stili di vita. Non guidiamo eserciti, ma seduciamo con la creatività.

Il filo lungo dei secoli. Forse è proprio questo il destino italiano: poca sovranità politica, molta influenza culturale. Dal Rinascimento al design contemporaneo, dagli umanisti ai giovani che emigrano oggi, l’Italia non si impone con la forza, ma convince con la bellezza e l’ingegno (Sorrentino a Venezia questa settimana). La differenza rispetto al passato è che oggi i condizionamenti non sono più eserciti stranieri nelle nostre città, ma regole economiche, basi NATO, mercati finanziari. Invisibili, ma non meno potenti.

Alla fine, l’Italia resta quello che è stata per secoli: una nazione di creatività e di cultura, spesso governata da altri sul piano politico, ma capace di lasciare nel mondo un’impronta che dura più a lungo di qualsiasi alleanza o trattato. E forse è proprio questa la lezione: che il potere non si misura solo con i carri armati o con i bilanci, ma con la capacità di generare idee, bellezza, passioni. In questo, l’Italia continua a essere molto più grande della sua sovranità. E si accende uno spazio piccolo, ma che esiste, che continua a risuonare di identità e orgoglio.

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Pubblicato il 30 Agosto 2025
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