«Possiamo fare a meno di ENI dall’oggi al domani?» Il sì di Greenpeace a Materia Spazio Libero
Nell'hub culturale di Castronno con il documentario Il prezzo che paghiamo Greenpeace, ReCommon e Giovanni Ludovico Montagnani a confronto su fossili, cause legali e futuro della transizione energetica

«Gli elementi per la transizione energetica li abbiamo tutti, non lo dice solo Greenpeace ma anche Confindustria» incalza Simona Abbati, Campaigner Clima & Energia di Greenpeace Italia. La narrativa che il fossile ci serva ancora fa sempre da padrona, così mercoledì 3 settembre è arrivato a Materia Spazio Libero il documentario Il prezzo che paghiamo per frenare le tecniche finalizzate al rinvio della transizione energetica del comparto fossile. Proiezione che segue a quella tenutasi due mesi fa in Friuli Venezia Giulia.
Giovanni Ludovico Montagnani, co-fondatore del collettivo “Ci Sarà un Bel Clima”, rete nazionale che ha dato vita agli Stati Generali dell’Azione per il Clima e alla stesura del Libro Bianco, fa chiarezza sul rapporto che la cittadinanza dovrebbe avere con i gruppi di attivisti, quali Greenpeace e ReCommon, autori del documentario proiettato. «Il fatto di avere una tradizione di attivismo e di prendere posizioni controverse può suscitare reazioni e mettere in discussione le sensibilità di alcune persone, come accaduto con il documentario sugli effetti del cambiamento climatico. Alcuni membri in passato hanno anche preso posizioni sbagliate. Ma il punto è un altro: riconosciamo il problema e vogliamo affrontarlo insieme, perché è meglio essere in tanti uniti a cercare soluzioni piuttosto che dividersi sulle differenti soluzioni possibili».
Al netto delle 570 mila vittime a livello globale che miete il cambiamento climatico e 2,8 miliardi di euro all’anno che chiedono frane e alluvioni quando presentano il conto, i protagonisti del docufilm, romagnoli e lucani, si interrogano sulla responsabilità e le colpe degli effetti dei cambiamenti climatici che li coinvolgono in prima persona. «La colpa morì zitella perché nessuno la voleva» è il motto che sintetizza le loro indagini, a cui si affianca la consapevolezza che «grandi colpe ci sono, se già negli anni Settanta qualcuno sapeva e non si è fatto nulla. Grandi, grandi colpe, però io non lo sapevo».
La situazione non sembra essere cambiata molto rispetto agli anni dell’austerity. Le imprese sono state avvertite degli impatti del cambiamento climatico, ma nessuna compagnia del gas ha intrapreso azioni concrete per allinearsi agli accordi di Parigi. Al contrario, «il marchio ENI compare in partnership e iniziative tra le più disparate, nel tentativo di ottenere quella che viene definita licenza sociale, ovvero l’associazione a valori e progetti considerati positivi dalla collettività» afferma Abbati.
Intere pagine di pubblicità acquistate da ENI pongono una domanda inevitabile: «Ma ENI ha davvero dei competitor, o sta cercando di comprare legittimazione e consenso? Una strategia che si riflette anche nel rapporto con l’informazione: da un lato le aziende sostengono economicamente la stampa, dall’altro impongono un limite implicito al giornalismo critico – come nota un’attivista del cortometraggio -. Se l’informazione è legata alla pubblicità, sei legato mani e piedi al gradimento dell’inserzionista».
ENI è stata accusata di disastro ambientale, ma procedere sul piano giudiziario resta complesso: se l’azienda non fornisce dati su come e con cosa inquina, diventa difficile dimostrare il percorso delle responsabilità. «La mia dignità, la dignità del territorio, i figli: sono queste le motivazioni che ci spingono alla battaglia, alla comunità solare» spiegano gli attivisti. Da questa spinta è nato l’osservatorio popolare, che con i propri esposti ha dato origine al cosiddetto Petrol Gate, processo in cui Eni è stata condannata per traffico illecito di rifiuti. Nonostante ciò, i report al 2028 restano ancora incentrati principalmente su gas e petrolio. Il ricorso alla giustizia è visto come uno strumento imprescindibile: «Se si dimostra che sapevi di provocare un danno e non hai fatto nulla per evitarlo, si spera che un giudice chieda il risarcimento». Nel 2023 è stata avviata una causa nei confronti di ENI, e da allora, raccontano gli attivisti, «il tono dell’azienda nei nostri confronti si è inasprito». La risposta è stata parziale e, nel 2024, si è arrivati a un episodio culmine: una causa di diffamazione, con udienza fissata per il 23 settembre prossimo, interpretata come un tentativo di silenziare le forme di dissenso. Ancora ReCommon ricorda una nota di ENI che intimava di non dare spazio alle battaglie del movimento ambientalista. «Essere nel movimento ambientalista significa essere sotto attacco. Ma se siamo sotto attacco vuol dire che siamo una minaccia» conclude Abbati. D’altro canto Montagnani, parlando del collettivo, lo descrive come «un gruppo un po’ da boy-scout: siamo simpatici e coccoloni, non subiamo pressioni dirette finché il nostro impatto resta limitato. Non siamo scomodi, e forse questo è un limite, ma rende anche le cose più semplici per noi che siamo cittadini comuni e non facciamo gli attivisti di professione».
Il nodo resta la difficoltà di percepire il problema: «Quella cosa che inquina non la vedo, non la sento, non capisco la fisica dell’atmosfera. Manca informazione e si scivola facilmente in un negazionismo semplice ma molto efficace, soprattutto qui in Italia». Alla domanda su cosa si possa fare, Montagnani ironizza: «Non basta comprare la carta igienica bio». Le vere soluzioni, spiega, passano per l’efficientamento energetico delle abitazioni, per un approccio rispettoso alle risorse naturali, per la scelta di mezzi di trasporto sostenibili e per il controllo consapevole dei propri fondi di risparmio e investimento, così da capire davvero cosa stanno finanziando i nostri soldi.
Che la speranza siano le future generazioni? Un’illusione. ENI insegna sostenibilità ed educazione ambientale nelle scuole e le università ricevono fondi dal settore petrolifero. Il fossile si inserisce su più livelli influenzando formazione e ricerca, indirizzando così studenti e studentesse al proprio core business. «La loro formazione non sarà dunque democratica, ma determinata dalle compagnie del gas» conclude Abbati.
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