Viaggiare senza mappe: “La mia avventura tra le isole dell’Indonesia”
Il viaggio di Annie Francisca nell'arcipelago dai mille colori e sapori. Una serata con lei a Materia per raccontare un diverso modo di vivere il turismo

Viaggiare a contatto con le comunità locali significa andare oltre l’idea di spostarsi o visitare luoghi come semplici consumatori. Significa entrare nella trama viva di una cultura, osservare come la gente pensa, prega, lavora, ride. Mangiare con una famiglia del posto, ascoltare le loro storie, partecipare anche solo come spettatori a una cerimonia o a un mercato: tutto questo permette di comprendere la vera identità di un luogo, quella che nessuna guida o itinerario può raccontare fino in fondo.
Per farlo, però, serve lasciare spazio all’imprevisto. Viaggiare da soli, senza prenotare troppo e con un itinerario aperto, è un atto di fiducia — non solo verso il mondo, ma anche verso se stessi. Significa accettare di non controllare tutto, di affidarsi al ritmo del viaggio, agli incontri casuali, alle deviazioni che diventano scoperte. Ogni volta che si rinuncia a una certezza, si apre la porta a qualcosa di nuovo.
Essere aperti all’ignoto non è solo una condizione del viaggiatore, ma un vero e proprio modo di essere nel mondo. Quando si viaggia così — senza filtri, senza protezioni e senza programmi rigidi — si impara a leggere i segnali del caso, a adattarsi rapidamente, a sentirsi parte di ciò che accade.
Paradossalmente, più si rinuncia al controllo, più si scopre un senso profondo di armonia. Perché il viaggio, in fondo, è proprio questo: un lento lasciarsi plasmare dagli ideali e dai ritmi del luogo che si attraversa.
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Prima di partire avevo letto un libro che mi ha accompagnata idealmente lungo tutto il viaggio:
“Indonesia, eccetera. Viaggio nella nazione improbabile” di Elisabeth Pisani.
Lo consiglio a chiunque voglia comprendere davvero questo Paese, al di là delle immagini patinate e dei luoghi comuni.
Nel libro, Pisani racconta che per entrare nello spirito dell’Indonesia aveva deciso di dire sì a qualsiasi cosa le venisse proposta — un modo per lasciarsi attraversare dagli incontri, dagli imprevisti, dal ritmo naturale del Paese. E così è iniziato anche il mio viaggio, con la stessa logica.
La nazione improbabile
Oggi l’Indonesia ospita uno su 30 abitanti del pianeta – 240 milioni secondo gli ultimi calcoli – ed è la quarta nazione più popolosa al mondo. Jakarta twitta più di qualsiasi altra città sulla terra e circa 64 milioni di indonesiani usano Facebook, ovvero più dell’intera popolazione del Regno Unito. Eppure, 80 milioni vivono senza elettricità e 110 milioni campano con meno di due dollari al giorno. Centinaia di migliaia vivono senza elettricità, con meno di due dollari al giorno e sono su Facebook.
Questa è la doppia natura dell’Indonesia: un Paese giovane, dinamico, iperconnesso, ma ancora segnato da profonde disuguaglianze. Come ha osservato l’imprenditore John Riady, “L’Indonesia è forse il Paese più invisibile a livello internazionale.” Una presenza gigantesca sul piano demografico ed economico, ma ancora poco compresa dal resto del mondo.
L’Indonesia si estende su oltre 17.000 isole — alcuni dicono perfino di più — distribuite tra l’Oceano Indiano e il Pacifico: un arcipelago immenso, complesso, frammentato e sorprendentemente variegato. È un Paese dove convivono aree disabitate e selvagge, tra le più ricche di biodiversità del pianeta, e regioni densamente popolate, come Giava, che da sola ospita circa 148 milioni di persone.
Le sue risorse naturali sono immense, molte ancora non pienamente sviluppate. Eppure, la povertà resta una realtà quotidiana per vastissime fasce della popolazione.
In questo intreccio di modernità e arretratezza, di innovazione e superstizione, si gioca la vera identità dell’Indonesia contemporanea. Il motto nazionale, che campeggia sullo stemma dell’aquila mitologica Garuda, riassume alla perfezione questa complessità:
Bhinneka Tunggal Ika — “Uniti nella diversità”
È una dichiarazione di principio e al tempo stesso una sfida. In un Paese che raccoglie centinaia di gruppi etnici e linguistici, le differenze culturali e religiose sono immense.
L’Indonesia è dunque un Paese di paradossi e armonie instabili: connesso al mondo eppure isolato, povero e ricco, moderno e arcaico, frammentato ma unito da un’identità profonda che si rinnova ogni giorno.
Ciò che Pisani chiama “la nazione improbabile” non è una critica, ma quasi un elogio dell’elasticità e dell’adattamento del popolo indonesiano. È un Paese che vive di contraddizioni, ma proprio in esse trova la sua energia vitale. Il caos, la frammentazione e la diversità — che altrove minerebbero l’identità nazionale — in Indonesia diventano parte integrante del suo equilibrio. “In un arcipelago dove ogni isola sembra un mondo a sé, la sopravvivenza stessa dell’Indonesia come nazione è il suo più grande miracolo.”
Bali e Nusa Lembongan
Il mio viaggio è cominciato a Bali, dove ho trascorso solo tre giorni. Era un’isola che sognavo da tempo, immaginandola come un luogo di spiritualità e silenzio, di templi immersi nella giungla e risaie che si perdono all’orizzonte. Invece, ho trovato un’isola diversa: trafficata, piena di resort, con il rumore costante dei motori e una spiritualità spesso trasformata in spettacolo. Non era il posto che cercavo, o forse semplicemente non era più l’isola che molti ancora raccontano.
Così, ho preso un traghetto di 45 minuti e ho lasciato Bali alle spalle.
Dall’altra parte, ad aspettarmi, c’era Nusa Lembongan — un’isola piccola, tranquilla, ancora segnata dal ritmo del mare e delle maree.
Niente strade trafficate, poche luci la sera, e la sensazione immediata che la vita seguisse un’altra logica, più semplice e coerente con l’ambiente.
A Lembongan ho ritrovato ciò che forse un tempo aveva reso Bali speciale: il rapporto autentico con la natura, con la spiritualità e con la comunità.
La gente vive ancora in equilibrio con il mare, con i templi e con i cicli delle stagioni.
Non è un paradiso, ma un luogo vero, dove la vita quotidiana conserva ancora qualcosa di genuino.
“Lembongan enteg ngalih, nanging tan dados kalepas saking segara.”
(“Lembongan può cambiare, ma non si separerà mai dal mare.”)
Un detto locale che racchiude perfettamente l’essenza dell’isola: nonostante il turismo e i cambiamenti degli ultimi anni, la vita a Nusa Lembongan resterà sempre legata al mare e ai suoi ritmi. Ciò che più mi ha colpito di quest’isola — e forse una delle ragioni che mi ha spinto a visitare Bali e le sue isole — è il profondo legame con la religione induista. Qui la spiritualità non è un aspetto separato della vita, ma ne è parte integrante: gli dei, le offerte, i riti e i templi accompagnano ogni gesto quotidiano.
Un aneddoto curioso riguarda il mare. Si racconta che chi disturba la vita marina senza rispetto possa essere colpito da sfortuna o malessere. Questo profondo rispetto per l’oceano ha contribuito a preservare l’ecosistema locale: le barriere coralline, le alghe, le tartarughe e le creature che popolano le acque tra Lembongan e Penida.
In passato, i pescatori dicevano di avvistare tartarughe giganti e persino squali balena durante la stagione secca. Alcuni anziani ancora oggi credono che queste apparizioni siano manifestazioni di Baruna, lo spirito del mare.
Spostamento a Flores, due aerei da Bali
Attraversare Flores è come attraversare un mondo in miniatura. Un’isola lunga e sinuosa, montuosa e verde, fatta di vulcani, foreste, risaie e villaggi che sembrano sospesi nel tempo. Si stende da est a ovest come una spina dorsale vulcanica che taglia l’Indonesia in due.
L’ho percorsa con i mezzi locali, cambiando autobus sgangherati, furgoncini carichi di merci e motociclette affidandomi a passaggi improvvisati e alla gentilezza delle persone che incontravo. Nessuna prenotazione, nessun piano rigido: solo il desiderio di seguire la strada e lasciarmi guidare dal caso.
Il mio itinerario ha seguito la costa e le montagne: Ende → Moni → Bajawa → Ruteng → Labuan Bajo. A Moni, ai piedi del vulcano Kelimutu, ho visto l’alba sui laghi dai tre colori, mentre un anziano mi offriva caffè e raccontava leggende di spiriti che abitano le acque.
A Bajawa, tra i villaggi Ngada con le loro case cerimoniali, sono stata accolta come una vecchia conoscente, invitata a sedermi sul pavimento di bambù e condividere il riso appena cotto. A Ruteng, ho attraversato risaie disegnate come ragnatele — lingko — simboli di equilibrio tra uomo e natura. Infine Labuan Bajo, porto rumoroso e brulicante di vita, dove il mare annuncia la fine del viaggio terrestre e l’inizio di un’altra storia.
In Indonesia si dice spesso che nessuno resta solo, e su Flores l’ho capito davvero. Ogni volta che qualcosa si rompe — un autobus in panne, un acquazzone improvviso, un sentiero sbagliato — qualcuno compare. Qui l’aiuto reciproco non è un favore, è una forma naturale di vita. Flores ti insegna che la gentilezza è un linguaggio universale, un’infrastruttura invisibile più solida di qualsiasi strada o ponte. Viaggiare così significa accettare di lasciarsi cambiare, di farsi parte di un ritmo più antico e autentico. In un Paese tanto contraddittorio e vivo, dove nulla sembra logico e tutto funziona per miracolo, la vera bussola è la fiducia.
L’evento a Materia
Annie con Annalisa Monfreda saranno a Materia lunedì 20 alle 21 (prima dell’incontro alle 20 è possibile partecipare a una degustazione di ravioli con lo Scoiattolo).
Indonesia senza cliché: itinerari leggeri fuori rotta
L’Indonesia è un arcipelago di culture e tradizioni che resistono al turismo di massa. Annie Francisca e Annalisa Monfreda racconteranno due modi diversi di viaggiare tra isole, motorini e homestay, lontani dai cliché e vicini alle comunità locali. Un incontro per scoprire rotte alternative, consigli pratici e ispirazioni per viaggi leggeri e rispettosi.
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