Per raccontare una storia non servono ricette ma disponibilità a entrare in relazione

La narratrice Betty Colombo ospite della Materia del giorno racconta il senso del pensiero narrativo, indispensabile alla vita di adulti e bambini

Generico 10 Nov 2025

Come si racconta una storia? Lo abbiamo chiesto all’artista Betty Colombo: attrice, cofondatrice del Teatro dei Burattini di Varese e narratrice.
«Essere una narratrice significa mettere a disposizione il corpo per raccontare una storia – ha spiegato in diretta alla web tv di VareseNews per La Materia del giorno di martedì 11 novembre – La storia può essere di qualunque genere e raccontarla significa farsela passare attraverso il corpo. Anche se è la stessa, la si vive ogni volta come se fosse inedita, come se la si scoprisse attraverso appunto la narrazione, che è un modo di mettersi in contatto stretto col pubblico attraverso il fiato che sembra niente e invece le parole sono i mattoni che creano le relazioni».

Parole, corpo e voce: gli strumenti della narrazione

Raramente si pone l’accento sulla consapevolezza di che cos’è la voce: «La voce è una delle pochissime cose, che non si può cambiare. Quella che ti danno è, però si può educare, che significa scoprirne le potenzialità e le particolarità.

Per raccontare però serve  tutto il corpo, perché quando si racconta si stabilisce una relazione. Vuol dire che nel momento in cui si racconta si racconta e basta. Non puoi raccontare una storia mentre rispondi al telefono o mentre fai altre cose. Deve esserci una dedizione completa e più c’è la consapevolezza di questa dedizione, più si va in profondità rispetto al rapporto che si crea con chi ascolta.

Cosa fa chi ascolta?

Il pubblico si dedica all’ascolto se chi narra è capace di coinvolgerlo al punto che non serve nient’altro e che non ci si accorge di nient’altro: «Per esempio mi capita nelle scuole, dove magari c’è chiasso perché ci sono altri rumori che vengono fuori. Ma nel momento in cui c’è una storia appassionante può succedere di tutto, si possono aprire la porta, entrare e uscire le maestre, i bambini manco si voltano. Se sono coinvolti dalla storia e dal modo di raccontarla, che ripeto parte innanzitutto dall’essere lì per fare solo ed esclusivamente quello».

Come si sceglie una storia?

La magia del raccontare travalica anche il contenuto: «Non c’è una storia più adatta di un’altra a essere raccontata. Tutto è degno di essere raccontato se la finalità è quella di mettersi in relazione. Poi ci sono le “storie sacre”, le fiabe, per esempio, che sono i testi che apparentemente parlano di quello che sappiamo, ma di fatto parlano dei nodi importanti della vita di ciascuno, dell’esistenza di ciascuno

Anche gli adulti hanno bisogno di conoscere delle storie, anche delle fiabe: «In questo periodo storico c’è chi vuole edulcorare le fiabe, cambiare i finali, di far diventare buono il lupo, o non farlo morire. Come se fossero delle storie imperniate sulla salvaguardia del lupo. Ma il lupo delle fiabe, rappresenta il male, la parte cattiva che bisogna insegnare che si può vincere. Quindi il lupo nelle fiave muore, non perché chi lo racconta è crudele o è un fanatico della caccia, ma perché dice che il male può essere battuto».

Le fiabe sono questi testi meravigliosi che parlano della vita di ciascuno di noi. Ci sono le fiabe tradizionali e ci sono le fiabe popolari che ancora hanno un grandissimo valore perché di solito rispettano i gangli formativi della fiaba però sono calate nel territorio, come nomi, ambienti e natura che ci sta intorno.

Ogni volta che si racconta si parla un po’ di sé

Ogni persona che narra, anche delle storie assolutamente conosciute, in effetti parla di sé. Perché il modo in cui si racconta, l’accento più o meno pesante su una frase, su una parola, su un avvenimento, su un fatto, parla di chi la racconta.
«Una sera ho raccontato Cappuccetto Rosso. Alla fine della storia la mia amica psicologa mi ha detto che c’era qualcosa di diverso. Quel giorno mia figlia, che allora aveva diciassette anni, per la prima volta era partita da sola con un’amica, andavano a Firenze. Quindi quella sera io ero quella mamma lì che aveva mandato Cappuccetto Rosso nel bosco di Firenze. Ma sai che noia ripetere una cosa così perché devi ripeterla e sai già tutto. E no, se la rivivi ogni volta.

Coltivare la relazione con il pubblico narrando non significa far interagire il pubblico, ma coinvolgerlo con le parole, con le emozioni vere, con lo sguardo, con la gestualità, col corpo, con l’essere lì. L’interazione sta anche nelle pause e nei silenzi che cambiano di intensità e di qualità.

Raccontare ai bambini è più difficile Gli adulti stanno lì comunque ad ascoltarti.  Per educazione, perché hanno pagato il biglietto, se sei in teatro, perché gli adulti sopportano. I bambini no, i bambini se non li prendi, se non dici qualcosa che gli importa veramente, loro fanno altro. Si rotolano per terra, disturbano, girano, vanno, camminano. Ai bambini bisogna raccontare le cose con autenticità, non per finta.

«Il mio grande maestro è  Marco Bagliani, un narratore straordinario, e che racconta come la narrazione non sia una tecnica ma un modo di pensare, a partire dalla necessità di raccontare. Necessità di creare una relazione e quindi una partecipazione attiva che non è gridare, ma essere presenti col corpo e con i sentimenti.. Il teatro è fatto di pause. Le parole sono lì, sono codificate, scritte certamente, ma è come poni queste parole che crea attenzione. La pausa serve a far vibrare all’interno di ciascuno quelle che sono le parole, i sentimenti, le emozioni che sono state trasmesse, che si vogliono trasmettere. Perché se tu racconti delle cose, per esempio torniamo alle fiabe classiche, bisogna dare il tempo che le parole sedimentino. Le parole libere, non legate alla sopravvivenza. Per sopravvivere serve il pensiero scientifico, ma per vivere serve il pensiero narrativo». 

La Materia del Giorno è l’appuntamento quotidiano di Materia e VareseNews: ogni pomeriggio un tema d’attualità raccontato da esperti e protagonisti del territorio. 

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Pubblicato il 11 Novembre 2025
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