Per sei mesi nell’ospedale di Emergency a Kabul: Martina Polato racconta le sofferenze e i diritti negati

In un paese dove le donne non possono essere curate dagli uomini, la specializzanda dell'Insubria si è trovata a lottare contro la cultura, le ingiustizie e la sofferenza in un ambiente che l’ha profondamente cambiata e aiutata a crescere

martina polato specializzanda a kabul

Martina Polato ha 30 anni, è specializzanda in anestesia e rianimazione all’Università dell’Insubria e ha appena concluso sei mesi in Afghanistan, nell’ospedale di Emergency a Kabul. Un’esperienza intensa, umanamente lacerante e professionalmente impegnativa: «Lo rifarei domani, anche se mi ha cambiata profondamente». ( a destra nella foto)

Martina, che da ragazza aveva paura del sangue e degli aghi, che dopo il liceo aveva scelto fisica all’università, si è trovata a gestire urgenze in un paese dove essere donna significa valere meno. E dove anche curare può diventare una battaglia culturale.

Dalla medicina scelta per caso all’urgenza del fare

Fare medicina non era stata la sua prima scelta. Aveva sostenuto il test d’ingresso solo per far contenta la madre. Quello che ha trovato strada facendo invece, è stata l’opportunità di fare la sua parte, di impegnarsi per cambiare quel pezzo di mondo che le è affidato, con determinazione, caparbietà e passione.

«Ho fatto il test senza impegnarmi troppo – racconta ridendo – Mi impressionava il sangue e pensavo di fare psichiatria oppure chirurgia, il reparto principe di ogni ospedale. Poi ho scoperto il pronto soccorso lavorando nell’ospedale di Casale Monferrato mentre attendevo di fare l’esame per la specialistica. In quei mesi ho capito che non era la chirurgia a motivarmi, ma il bisogno di essere utile».

Un anno in un centro di eccellenza a Bruxelles

Nel percorso nella scuola di specialità dell’Università dell’Insubria, Martina ha seguito ogni occasione come un’opportunità: « Avevo sempre desiderato andare all’estero e quando il professor Severgnini propose un’esperienza a Bruxelles mi candidai subito. Non avevo nemmeno idea di quale fosse il posto. Ma dovevo provare».

In Belgio Martina trascorre oltre un anno in un centro di eccellenza, uno dei migliori d’Europa, per la neuro-rianimazione, dove alternava pratica e ricerca.

La necessità di vivere un’esperienza umanitaria

L’esperienza formativa è eccezionale ma, al ritorno, ricomincia a mordere il freno per vivere un’esperienza umanitaria; «Scrivevo a Emergency ogni mese, fin dal primo anno: volevo partire, volevo vedere cosa c’era oltre il nostro sistema. Lo sentivo e lo sento ancora oggi come un mio debito morale, per essere nata in Italia, dove posso studiare, essere libera, decidere in autonomia».

martina polato specializzanda a kabul

Kabul: un mondo rovesciato

A ottobre dello scorso anno, Martina arriva in Afghanistan piena di entusiasmo. Ma la realtà che incontra è un pugno nello stomaco. «Mi sono schiantata contro la realtà». Una realtà fatta di bambini mutilati da mine, di madri che muoiono in casa perché non possono essere curate dagli uomini, di colleghi afgani costretti a studiare su libri senza immagini perchè le foto sono illegali, di regole culturali terrificanti, di sofferenze senza lacrime, di dolorosa rassegnazione, di sogni infranti e di speranze spezzate.

Da ottobre a marzo, Martina lavora nell’ospedale di Emergency a Kabul: non esce mai, se non per andare al compound al di là della strada dove vive, accompagnata dalle guardie, o per raggiungere gli altri due presidi nel nord e nel sud dell’Afganistan: «Non ho mai avuto paura, non mi sono mai sentita in pericolo perchè gli ospedali di Emergency sono rispettati da tutti. Gli sguardi, però, li ho percepiti: gli occhi sempre addosso di parenti o pazienti che ti giudicano perchè non indossi il velo. Un lusso concesso solo perché occidentali».

Quella del velo, però, è stato l’unica libertà: « Ho sentito su di me il peso di una cultura misogina. Ero una donna e valevo meno dei miei colleghi pur lavorando alla pari. Non per cattiveria, ma perché è così che funziona. Sono stati proprio i colleghi afgani, però, a darmi la forza per reagire: ero per loro un punto di riferimento. Ancora oggi mi scrivono per avere il mio parere o un consiglio».

Le donne, le bambine, il dolore più grande

Il lato più crudele dell’Afghanistan riguarda le donne. «Le pazienti non possono essere curate se non c’è un’infermiera donna. Non possono andare in ospedale quando stanno male se non accompagnate dal marito o da un parente. A volte muoiono per queste regole assurde».

La sua voce si spezza quando parla delle bambine: «Era ricoverata una bimba per un’osteomielite che rischiava di perdere una gamba. La madre era in carcere, condannata alla pena di morte perchè ha ucciso il marito, stanca di soprusi e violenze. Una volta guarita, la bimba è tornata in prigione. Non c’è alcuna prospettiva per lei: quando la madre morirà, andrà in orfanotrofio».

I bambini, i legami, il ritorno difficile

Nonostante la durezza dell’esperienza, o forse proprio per questo, i ricordi più intensi di Martina sono quelli dei bambini. Uno di loro, colpito da tubercolosi e malnutrizione, non riusciva nemmeno a mangiare da solo per debolezza. «Lo imboccavo io. Di notte restavo accanto a lui perché la sua famiglia viveva molto lontano. Era terrorizzato, dopo aver vissuto l’esperienza della terapia intensiva. Non dimenticherò mai i suoi occhi».

Il ritorno in Italia non è stato facile. «Ci ho messo mesi a ritrovare un equilibrio. A Kabul ho provato spesso tanta rabbia, molta frustrazione. Ma sono contenta di aver fatto quell’esperienza. E oggi mi sento ancora più determinata a pretendere il meglio da me stessa perchè non dobbiamo mai accontentarci o accettare le cose in modo fatalistico o indolente. Abbiamo i mezzi, gli strumenti, le conoscenze, il tempo per studiare, per aggiornarci, quindi è nostro dovere fare le cose nel modo corretto. Guai a sederci sui nostri privilegi ».

Il futuro è aperto ma Kabul resta nel cuore

Martina sta per concludere il suo percorso specialistico: a febbraio sosterrà l’esame conclusivo e poi potrà progettare il futuro. «Ho tante idee per la testa: vorrei proseguire con un dottorato a Bruxelles, iniziare a lavorare. Nel frattempo sto cercando nuove esperienze umanitarie, ma dovranno essere situazioni temporanee che ti permettano di tornare alla tua quotidianità, al tuo ambiente di lavoro. È una questione di equilibrio personale, ma soprattutto di aggiornamento professionale per poter partire in grado di condividere la tua preparazione».

Ha già fatto richiesta e spera di tornare a Kabul: «Nonostante la frustrazione, nonostante la rabbia, nonostante le regole, quel popolo mi è entrato nel cuore. Voglio tornare e fare la mia parte. Magari una piccola rivoluzione».

Alessandra Toni
alessandra.toni@varesenews.it

Sono una redattrice anziana, protagonista della grande crescita di questa testata. La nostra forza sono i lettori a cui chiediamo un patto di alleanza per continuare a crescere insieme.

Pubblicato il 19 Novembre 2025
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