Rocco Tanica: quarant’anni di musica tra ironia, intelligenza artificiale e disincanto pop

Abbiamo incontrato il musicista, compositore e produttore in occasione di una serata a Varese dove ha portato un talk sull'AI. Ecco cosa ci ha raccontato

Op3 e Rocco Tanica a Varese

Rocco Tanica è uno di quegli pseudonimi entrati nell’immaginario collettivo della cultura pop italiana. Più di quarant’anni di carriera alla spalle, Rocco Tanica, il cui nome vero è Sergio Conforti, è stato tra i primissimi ad aver capito con grande slancio di voler far parte di una band pop rock demenziale. Lascia il conservatorio dopo otto anni per il pop ed entra a far parte degli Elio e Le Storie Tese: «Il gruppo nacque quasi per gioco. Non avevamo la consapevolezza che sarebbe stato un successo, ma c’era sicuramente un’energia genuina, e il nostro approccio a “non sapere cosa fare” ma farlo comunque, ha creato una nicchia che abbiamo occupato noi».

In copertina, credits di Istituto Italiano di Fotografia, Mihaela Patrascu

Co-fondatore del gruppo, storico tastierista, o meglio «pianolista», compositore, arrangiatore, voce dell’immortale «Cara ti amo», all’alter ego di «Shpalman» e molto altro. Nel nel 2016 lascia il i tour dal vivo ma la sua storia resta legata alla band. Negli anni ha collaborato per programmi Tv, nel cinema, nel cabaret e con nomi immortali della musica italiana. E ancora oggi continua a farlo. Recentemente ha scritto un libro sull’AI ma non è l’unico. Ricordiamo, tra gli altri, la sua biografia “Lo sbiancamento dell’anima. Memorie e scritti vari (2019)”. Lo abbiamo incontrato a Varese, prima di un suo talk dedicato proprio all’intelligenza artificiale. Una serata organizzata da Echi Urbani che ha concluso il suo festival anche con l’esibizione degli OP3. Ed è da qui che inizia la nostra chiacchierata.

Parliamo di musica e intelligenza artificiale, secondo te come sta cambiando o può cambiare il modo di creare?
«Alla base c’è sempre la creatività umana ma possiamo dire che l’intelligenza artificiale sta cambiando modo di fare musica. Agevola una discreta fetta di processi creativi. Da utente posso dire che mi permette di bruciare delle tappe per loro natura destinate a tentativi spesso vani. Permette di trovare una direzione stilistica più rapidamente. Faccio un esempio: io ho in mente una semplice melodia accompagnata al pianoforte o alla chitarra perché ho scritto una canzone. Da quando ho coscienza di questo mondo, solitamente, il processo prevede che io vada in studio, faccia esperimenti col gruppo, da solo, col batterista per capire se preferisco una melodia allegra, triste, rock and roll, classica barocca e così via. Ecco, per fare questi tentativi ci volevano giorni o settimane, spesso per scoprire che solo l’ultimo tentavo era quello corretto. L’intelligenza artificiale mi permette di ridurre questo processo da settimana e secondi».

Secondo te c’è il rischio che venga utilizzare a prescindere dalla creatività umana?
«Già oggi è così. La questione è che la macchina non ha un’etica e se l’uomo le chiede di comporre una canzone, assolutamente credibile, indistinguibile da un pezzo inedito, lo fa. E in pochi secondi. Il punto è che diventa un circolo vizioso, senza la creatività umana la “macchina” andrà ad alimentarsi solo delle cose che già conosce. Senza inventarci niente, penso che non esista te tecnologia cattiva, esiste tecnologia malintesa nel migliore dei casi».

Hai quarant’anni di musica alle spalle, ne hai viste tante. Oggi senti il mondo della musica come qualcosa di distante o un mondo al quale ancora appartieni?
«Lo sento molto distante, involuto. Ho una formazione classica, ho studiato al conservatorio ma ho amato da subito il Pop. Tanto da aver lasciato gli studi all’ottavo anno, a 17 anni, per dedicarmi a questo genere. E parlo di un periodo in cui il Pop aveva una sua dignità che derivava spesso dalla compiutezza del messaggio. Mi spiego: negli anni ’60, ’70, ’80 fino ad una prima parte degli anni Novanta i brani avevano una loro costruzione armonica e strutturale assolutamente dignitosa, virtuosa e bastevole a se stessa. Sentivi brani che ti suggerivano mondi, armonie, ambientazioni, tutto all’interno di quattro minuti. Andando avanti con il tempo le cose sono cambiate. Odio la parola commercializzazione, ma nel tempo si è andati sempre più verso quella direzione. Non è una brutta parola ma vuol dire semplificazione della musica, così le canzoni sono diventate piccole giostre da quattro accordi perché se ne aggiungi due la gente si stufa. Quindi rispetto al Pop di oggi mi sento decisamente distante. A a parte quando posso godere del contributo musicale di gente che magari sceglie una via accessibile, ma non estremamente semplice. Coldplay, Bruno Mars…se mi chiedi gli italiani devo pescare tra i miei coetanei, cioè ad esempio, ti dico Marco Masini».

Come mai secondo te oggi è successo questo a certo Pop?
«I musicisti che amo sono quelli che esulano dal compitino, da quello che nei videogame è chiamato percorso sui binari. Tu sei illuso di stare andando in giro in questo ambiente a sparare i cattivi dove fai quello che vuoi, no? In realtà a un certo punto troverai un muro che non puoi valicare perché devi andare per forza a destra, fai ancora per forza a destra poi trovare la porta. Ecco, stessa cosa per la musica».

Qual è la collaborazione che ti ha più entusiasmato a livello artistico?
«Devo piluccare nel passato. Non è detto che siano stati proprio i “grandi nomi” a colpirmi di più, ma sicuramente hanno lasciato un segno importante nel mio percorso. Prima, ad esempio, stavo ascoltando una composizione che ho realizzato grazie all’intelligenza artificiale, utilizzando un brano di Alice e Ellen Kessler.

Per quanto riguarda la mia esperienza con le Kessler, ho avuto il privilegio di lavorare con loro a metà degli anni ’90 con Le Storie Tese. Abbiamo realizzato un brano che è ancora disponibile su YouTube. Quello che mi colpì profondamente di Alice e Ellen fu la loro incredibile serietà professionale, quella ‘old school’ che spesso non viene apprezzata come dovrebbe. Mi colpì anche il loro modo di affrontare la fama con grande umiltà: pur avendo avuto successo in Italia, mi raccontavano con naturalezza dei loro successi in Germania e nei paesi di lingua tedesca, dove avevano fatto esperimenti musicali e teatri innovativi. Alice Kessler, in particolare, durante delle prove, mi disse un giorno: ‘Guarda che sei fuori tempo’, suscitando inizialmente un po’ di fastidio in me. Ma poi, dopo aver consultato lo spartito, mi resi conto che aveva ragione. Se dovessi fare un elenco di nomi, direi che Massimo Ranieri, James Taylor e le Kessler sono senza dubbio tra quelli che mi hanno impressionato di più. Ranieri è un esempio di eleganza e classe, Taylor mi ha dato l’opportunità di passare dal semplice ascolto della sua musica, da tredicenne, al suonare con lui, un’esperienza che considero quasi miracolosa. Con lui, ad esempio, abbiamo realizzato una canzone chiamata ‘First Me Second Me’, che Elio ed io avevamo scritto in un inglese volutamente ardito, ironizzando sugli italiani che parlano inglese con un accento improbabile. James l’ha cantata con noi, con la sua voce unica, rendendo quella performance un ricordo indimenticabile. Abbiamo anche fatto una piccola tournée acustica, solo piano e voce, che rimane uno dei momenti più belli della mia carriera. Sono esperienze che non dimenticherò mai e che continuano a ispirarmi. Ecco, se dovessi fare un elenco di incontri significativi, sicuramente Ranieri, Kessler e Taylor sono i primi che mi vengono in mente, ma ce ne sarebbero molti altri che meritano di essere ricordati».

Qualche collaborazione che ti ha particolarmente colpito con gli Elio e le Storie Tese?

«Tieni conto che molte delle collaborazioni che ti ho citato sono legate alle Storie Tese, quindi già queste hanno avuto un impatto importante, ma te ne posso raccontare anche altre. Ad esempio, ricordo con piacere tutte le occasioni in cui gli artisti accettavano di uscire, per usare un tema alla Simona Ventura, dalla loro confort zone per mettersi alla prova con il nostro repertorio. Un esempio che mi viene in mente è quando Enrico Ruggeri ha accettato di cantare “Il vitello dai piedi di balsa” con noi. All’epoca, negli anni ’90, Enrico era conosciuto per il suo stile rock e stabile, e non avrebbe mai pensato di intraprendere una strada musicale così eclettica, che poi avrebbe abbracciato ulteriormente con la sua carriera televisiva. Il mio rispetto per lui è aumentato tantissimo dopo quell’esperienza, ma lo stesso vale per altri artisti che sono venuti a collaborare con noi, come Riccardo Fogli, Giorgia, e Edoardo Vianello. Con Giorgia, in particolare, è stata un’altra esperienza straordinaria, che ricordo con molto entusiasmo. Sono tutti artisti che, con grande apertura mentale, hanno accettato di mettersi in gioco con noi».

Quando siete nati come gruppo, eravate ragazzi di Milano che avevano voglia di fare musica, avevate già capito dall’inizio che il vostro approccio ironico e senza limiti avrebbe avuto successo? Volevate solo divertirvi?
«All’inizio, in realtà, il progetto è partito in modo molto spontaneo. Elio, che era il fondatore, voleva creare una band che facesse ridere, tanto che aveva deciso il nome, ‘Storie Tese’, prima ancora che il gruppo esistesse davvero. Si pensa spesso che il nome sia stato preso dagli Skiantos di Freak Antoni, ma nasce prima. Era una definizione che usava spesso un personaggio del suo quartiere, un tossico della sua zona, che ripeteva spesso che per lui ogni cosa per lui era una ‘storia tesa’. Quindi, il gruppo nacque quasi per gioco. Eravamo dei giovani che suonavano musica classica e ad un certo punto abbiamo iniziato a fare questa cosa. Non avevamo la consapevolezza che sarebbe stato un successo, ma c’era sicuramente un’energia genuina, e il nostro approccio a “non sapere cosa fare” ma farlo comunque, ha creato una nicchia che abbiamo occupato noi. Non eravamo un gruppo rock come gli altri, e non suonavamo nel modo tradizionale: questa novità ci ha permesso di attirare l’attenzione»

Avete avuto consapevolezza del successo che stavate ottenendo sin dall’inizio? 
«La fortuna che abbiamo avuto è stata che, a parte forse il primo anno di attività, non abbiamo mai dovuto cercare serate. Erano i locali che ci chiamavano per suonare, ci volevano in programma per due serate di fila, tanto che a volte non riuscivano nemmeno a farci stare tutti. Abbiamo cercato di sovvertire le regole tradizionali del “vi faccio suonare, ma in cambio vi offro le birre”. Noi volevamo essere pagati, volevamo che il nostro lavoro fosse riconosciuto. Non era solo un passatempo: se facevi una serata e ti ritrovavi con 50.000 lire in tasca (o l’equivalente), era già una vittoria, soprattutto a 17 anni. Quando poi è arrivata l’opportunità di registrare un disco alla fine degli anni ’80, è stato un altro passaggio cruciale. Abbiamo lavorato al nostro primo album  ben nove mesi, perché il nostro produttore ci ha dato la possibilità di lavorare senza pressioni. Non abbiamo ceduto alla tentazione di registrare velocemente, come facevano molti, ma abbiamo investito tempo e impegno in un lavoro che suona ancora oggi straordinariamente bene».

Siamo in periodo Festival di Sanremo, come ricordi la vostra partecipazione del 1996 con “La terra dei cachi”?
«Un’avventura straordinaria. Siamo andati lì con lo spirito dei cazzari. All’inizio eravamo scettici, non capivamo cosa c’entrassimo noi con Sanremo. Ma poi è stato Pippo Baudo a convincerci, dicendo che con una canzone come la nostra avremmo potuto sovvertire tutto e così è stato. Non ce ne rendevamo conto, ma il bello è stato partecipare facendo tutto quello che ci veniva in mente e stando dentro il “gioco” di Sanremo».

Oggi guardi Sanremo?
«Sì».

Ti piace?
«Dipende, mi piacciono le edizioni alla Carlo Conti, quel Sanremo classico lì».

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Pubblicato il 19 Dicembre 2025
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