Noi, alunni della scuola Adamoli, non dimentichiamo
I bambini della scuola elementare e della media di Besozzo hanno commemorato la giornata dell'Olocausto ascoltando la testimonianza di Liliana Segre
Mercoledì 27 gennaio 2010 era la Giornata della Memoria.
Noi alunni della Scuola “G: Adamoli”, con i nostri professori, l’abbiamo voluto commemorare assistendo ad una video conferenza in aula informatica.
L’Associazione Figli della Shoah, la Fondazione Memoriale della Shoah e il gruppo SOLE 24 ORE hanno organizzato presso il Conservatorio G. Verdi di Milano un incontro con la signora Liliana Segre, sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz.
Liliana Segre abita a Milano, dove è nata e dove aveva vissuto da bambina, fino al tempo del suo arresto e della sua deportazione. Era una ragazzina di 13 anni quando arrivò ad Auschwitz e di quella sua esperienza, per molto tempo, non ha mai voluto parlare. Ha deciso di interrompere questo silenzio circa dieci anni fa e da allora si è resa disponibile a partecipare a decine di assemblee scolastiche e convegni di ogni tipo per raccontare ai giovani la propria storia, anche a nome dei milioni di altri che non sono sopravvissuti.
Aveva otto anni al momento delle leggi razziali e si ricorda come una netta cesura nella sua vita quella fine estate del 1938 quando suo papà cercò di spiegarle che, poiché era una bambina ebrea, non poteva più continuare ad andare a scuola. Non poteva dire di aver capito allora quello che stava succedendo, però si è sempre ricordata, dopo, come si era sentita quel giorno che ha diviso la sua vita in un prima e in un dopo. La sua era sempre stata una famiglia laica e lei non si era mai posta il problema di che cosa volesse dire essere una bambina ebrea. Lo avrebbe ben capito in seguito, anno dopo anno, giorno dopo giorno, man mano che la persecuzione si è fatta più dura, quando è scoppiata la guerra e i nazisti sono diventati i padroni dell’Italia del Nord. Nel 1943 era una ragazzina ormai tredicenne, molto consapevole di quello che avveniva intorno a lei. Falliti i tentativi di sfuggire alla persecuzione, nel corso dei quali dovette abbandonare la sua casa e dire addio ai suoi nonni ( poco prima che venissero, anche loro, deportati e uccisi ad Auschwitz) per lei e per suo papà venne il momento di tentare la fuga in Svizzera. Anche per loro le cose andarono male, perché trovarono un ufficiale svizzero, che li riconsegnò alle autorità italiane dopo che erano già riusciti a espatriare.
Entrò così, a tredici anni, nel carcere femminile di Varese ed era sola a camminare in quei corridoi mentre si chiedeva per quale colpa si trovasse lì. Fu così a Varese, fu così a Como, fu così a San Vittore, dove rimase per quaranta giorni.
Ma lì era "contenta", perché le famiglie erano state riunite e lei era in cella con suo papà. Due o tre volte alla settimana gli agenti della Gestapo portavano via tutti gli uomini del raggio cinque quello, dove si trovavano gli ebrei per interrogarli. Lei sapeva che erano interrogatori terribili, in cui si torturava e si picchiava, e ci pensava quando rimaneva sola nella cella aspettando che tornasse suo padre. Aspettava una due, tre ore; diventava vecchia leggendo le scritte di quelli che erano passati prima di loro: maledizioni, addii, benedizioni, nomi, "ricordatevi di me". Poi lui tornava: era pallido, la barba lunga, gli occhi segnati, non le raccontava niente, si abbracciarono.
Alla fine di gennaio, nell’implacabile appello dei 650 nomi compresi nel successivo trasporto, furono pronunciati anche i loro.
Dovettero attraversare la parte del carcere adibita ai criminali comuni.
Lì ci fu un episodio di grande umanità, che la Signora Segre ricorda con commozione: i galeotti salutarono gli ebrei dando loro del cibo e parole di conforto.
Li misero in fila e li caricarono sui camion per portarli alla stazione centrale.
Lì furono caricati su un vagone specializzato per il trasporto di bestiame; durante il viaggio i passeggeri prima piansero, in un secondo momento pregarono tutti insiemi per poi stare in silenzio perché la morte era vicina.
Arrivarono ad Auschwitz in pieno inverno.
Era stato un viaggio inumano, ma ancora più inumano fu l’arrivo: quando furono scaricati a calci e pugni su quella spianata nel lager di Birkenau. Furono separati, uomini e donne; qui lasciò per sempre la mano di suo papà.
Passò la selezione senza sapere che veniva scelta per la vita o per la morte. Visse perché era grande e grossa e dimostrava più anni di quelli che aveva.
Entrò nel campo e iniziò anche per lei quella vita, fondata sulla più totale disumanizzazione in cui la sostenne solo una tenace voglia di vivere.
Rimase un anno nella fabbrica di munizione; erano schiave, dovevano solo lavorare.
Si rinchiuse in quei mesi sempre di più in un silenzio doloroso.
Tre volte passò la selezione nel corso di quell’anno. Nude, perché la nudità era un’altra umiliazione costante della loro vita di tutti i giorni, passavano davanti agli ufficiali delle SS, elegantissimi nelle loro uniformi. Lei aveva tredici anni e voleva vivere.
Alla fine di gennaio del 1945, quando era passato un anno dal suo arrivo nel campo, cominciava a sentire da lontano rumore di bombardamenti: qualche cosa stava succedendo. Ed ecco che dalla fabbrica arrivò il comando di evacuare il campo. E, così com’erano, li fecero alzare da quei banchi, dove lavoravano per fare proiettili e munizioni, e vennero avviate per quella che sarebbe stata chiamata la "marcia della morte". Quando cominciò a capire che doveva camminare, comandò al suo corpo: "Una gamba davanti all’altra! Devi andare avanti, devi andare avanti… ". Camminarono per giorni attraverso la Germania, soprattutto di notte.
Lei non si voltava per guardare le compagne in punizione, lei non voleva sapere di torture, di esperimenti, di racconti spaventosi, lei non voleva sapere, lei voleva vivere e si sdoppiava in un’altra personalità: non era lì, non era lei quella che faceva la Marcia della Morte.
Sono arrivate con la forza della disperazione, come non lo saprebbe più dire; eravamo tanti chilometri lontano da Auschwitz! Quasi più nessuno si alzava da quei giacigli su cui stavano ammucchiate. Ma erano ancora vive. Dei ragazzi, prigionieri francesi, che passavano fuori dal campo, loro dicevano: "Non morite! La guerra sta per finire.” "I nostri aguzzini la stanno perdendo, arrivano i russi da una parte e gli americani dall’altra". Loro rientravano nelle baracche e dicevano a quelle che erano ormai alla fine: "Ci hanno detto: non morite! Noi lo ripetiamo a voi: non morite! La guerra sta per finire."
Era una gioia troppo grande; loro che erano abituate alla fame al freddo, alle botte, all’aver perduto tutto, alla paura costante, non erano preparate a una gioia così grande come quella. Era vero: gli aguzzini stavano perdendo la guerra e nel giro di pochi giorni portarono via tutto da quel campo. Portavano via scrivanie, macchine da scrivere, soprattutto portavano via documenti compromettenti su quegli orrori che avevano perpetrato per anni e dei quali non volevano lasciare tracce. E, ancora una volta, li comandarono di evacuare il campo.
Ad un tratto un generale tedesco, per confondersi fra la gente in borghese, si denudò della sua divisa, lasciando cadere la pistola vicino ai piedi della signora Segre; in un primo momento pensò di prenderla e sparare al suo nemico, ma riflettendo capì che lei non era come loro.
Da quel momento si sentì libera.
Stefano Soma, Francesco Francolino, Michele Pasetto.
alunni della classe IIIa
Scuola secondaria di 1° grado “G. Adamoli”
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