Addio sogni di gloria
di Gian Paolo Zoni

Per Gino Atelli la scuola distava da casa sua novemilacinquecentoquarantadue passi. Io non sono mai riuscito a contarli, so soltanto che impiegavo un’ora abbondante per arrivarci. All’interno della cartella i quaderni, il sussidiario, una mela e nelle fredde giornate mia madre aggiungeva una pagnotta imbevuta con un po’ di olio. Per il ritorno, diceva.
Ricordo la strada fangosa, i salti per evitare i cumuli di escrementi delle vacche dei Gavino, le tracce profonde delle gigantesche ruote dei trattori. E intorno campi in semina, arati, o rigogliosi di pannocchie o farro a seconda delle stagioni. E io per tutto il tragitto sognavo a occhi aperti. Fantasticavo essere un ardito legionario dell’impero romano, le ore di storia con la signorina Stella mi emozionavano. Oppure ero l’eroico cacciatore di pellicce in territorio indiano, Davy Crockett, come nel film visto al cinema di Borgolò con mio padre. Gino, nel frattempo, contava i passi. Al bivio di Ronco le nostre strade si dividevano, e io potevo impersonare il mio personaggio preferito: il musicista. Camminavo dondolando la testa e, con le mani a mezz’aria, pigiavo i tasti bianchi e neri di un invisibile pianoforte.
Speravo di guadagnare qualche lira durante l’estate offrendo i miei umili servigi al signor Gavino. Pulire le stalle, nutrire i conigli, strigliare il suo possente roano. Intendevo racimolare un gruzzoletto tale da permettermi di pagare qualche lezione di musica in settembre, prima che cominciasse la scuola.
Iniziò prima la guerra. Mio padre partì il 12 giugno e morì il 23 dello stesso mese, da qualche parte in Val d’Isere, fu uno dei 631 morti della battaglia delle Alpi occidentali. Mia madre pianse tutta l’estate, e io venni assunto dai Gavino. Niente lezioni di musica però, quei soldi servivano a mantenere la famiglia. Avevo undici anni. Percorsi quelle stradine fangose dopo temporali, polverose di ocra quando le nuvole passavano sopra di noi senza salutare. Rimpiangevo le corse con Gino, non c’era bisogno di arrivare per forza da qualche parte, si correva e basta.
Gli anni passavano e le strade erano le stesse, solo le scarpe diventavano più grandi. Conobbi Nora, l’unica ragazza che mi prestasse attenzione. La sposai nel ’51. Eravamo poco più che ragazzi, e l’amore è un’altra cosa.
Conservo tuttora il sogno di imparare a suonare il pianoforte, ma le mani a forza di stringere terra dura e manici di falce si sono fatte enormi e Nora non capisce. Per lei abbiamo tutto, e il suo tutto è un tetto sulla testa e un fuoco per cucinare minestre di ceci e scaldarci in inverno.
La sera, a volte, prendo una seggiola dalla cucina e mi siedo fuori, chiudo gli occhi e, oltre a una sciocca lacrima, mi viene ancora da muovere le dita nell’aria.
Racconto di Gian Paolo Zoni (www.ilcavedio.org), ispirato all’omonima canzone di Luciano Virgili (1950), da “Non sono canzonette”, dedicate a Maniglio Botti, edizioni IL CAVEDIO
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