Il freddo, soglia della vita
Dal corpo che si ritrae alla natura che si addormenta, fino ai popoli che imparano a conservare o a donare calore: il freddo non è un nemico, ma un maestro di equilibrio
L’altro giorno mi sono alzato presto, non è insolito per me, per andare a fotografare l’alba sul lago. Prima tappa: il lido di Bodio. Erano neanche le sei, eppure non ero solo. In un angolo, vicino all’acqua, una donna stava immobile, come una statua, ad aspettare la luce. A Cazzago Brabbia, invece, non c’era nessuno. Troppo buio: ho fatto scappare un airone che dormiva nel canneto. Ho proseguito fino al pontile che porta all’Isolino Virginia. Lì, finalmente, mi sono fermato.
Il buio era spesso, la luce ancora lontana. Sentivo solo passare missili invisibili nell’aria: uno, due, tre, quattro, stormi di uccelli neri che attraversavano il lago. Poi è arrivata una donna, sessantacinque anni forse, una tazza di tè in mano. Veniva da Biandronno, tre chilometri più in là.
«Perché stare in piedi, se si può stare seduti?» ha detto, sedendosi sul legno del pontile.
«Fa freddo per terra,» le ho risposto.
«Ma è legno.»
Io ho sorriso: «Io preferisco stare in piedi, faccio meglio le fotografie.»
Abbiamo aspettato insieme l’alba. Lei raccontava dei figli, del Nepal, “gli ho comprato tutto, e lui parte coi sandali”, di un altro lontano. Le parole si perdevano nell’aria fredda, tra il silenzio dell’acqua e la lenza di un pescatore, suo amico, alle nostre spalle. Io scattavo, o meglio: scattava il telefono, che è più bravo di me. E intanto prendevo freddo, alle mani soprattutto. Che espressione strana, a pensarci, prendere freddo.
Cosa accade quando “prendiamo freddo”. Il corpo umano mantiene la sua temperatura centrale intorno ai 36,5–37 °C, grazie a un sistema di termoregolazione che è un capolavoro di equilibrio dinamico. La torre di controllo è l’ipotalamo, che riceve segnali da sensori distribuiti nella pelle, nei muscoli e nel sangue. Quando la temperatura esterna scende, il corpo reagisce per difendere gli organi vitali, cervello, cuore, fegato. I vasi sanguigni della pelle si restringono per ridurre la dispersione di calore. Le estremità, meno vitali, vengono sacrificate per prime. Vengono i brividi, una piccola fornace interna, contrazioni involontarie dei muscoli che producono calore. I peli si rizzano, per creare un sottile strato d’aria isolante; è un residuo evolutivo dei tempi in cui avevamo più pelliccia. La tiroide e il sistema simpatico aumentano la produzione di ormoni (adrenalina, noradrenalina, tiroxina) per accendere i “forni cellulari”.
Non è tanto la temperatura interna a cambiare (almeno finché il corpo regge), ma il gradiente termico tra la pelle e l’ambiente esterno. I piccoli recettori nervosi rilevano il calo di temperatura della pelle e inviano segnali al cervello: “stiamo perdendo calore, agisci”. In altre parole: il freddo non è una temperatura, è una percezione di perdita di energia.
Il corpo produce calore extra per difendersi. Ma questo calore serve solo a compensare le perdite. È come se avessimo un camino che brucia più legna, ma con le finestre spalancate: la stanza non si scalda, anzi, restiamo con la sensazione di gelo perché la dispersione è costante. Inoltre, durante la vasocostrizione, il calore resta intrappolato nel corpo centrale e non raggiunge la pelle, dove risiedono i sensori della temperatura. Così, anche se dentro “bruciamo”, fuori sentiamo freddo.
“Ho preso freddo”. L’espressione deriva dal fatto che, in certe condizioni (vento, umidità, stanchezza, sudore, mancanza di protezione), il corpo non riesce più a compensare. Allora la temperatura interna inizia davvero a scendere, anche di mezzo grado, e questo altera il sistema immunitario, la circolazione e perfino la funzionalità delle mucose (per esempio, il naso e la gola diventano più vulnerabili ai virus). Non è il freddo a “causare” il raffreddore, ma piuttosto l’abbassamento delle difese locali dovuto allo stress termico.
Quando la natura prende freddo. Anche la natura, come il corpo, non si oppone al freddo: si ritira. Gli alberi lasciano andare le foglie per non disperdere energia, la linfa scende verso le radici, gli animali rallentano, la terra dorme. È la stessa saggezza che il corpo conosce: conservare, non sprecare.
L’autunno è la vasocostrizione della terra: tutto si concentra al centro. Il brivido umano e la foglia che cade parlano la stessa lingua. Entrambi dicono: “Sto proteggendo il mio calore.” Sotto la neve o dietro la pelle d’oca, la vita non scompare: si fa brace. E aspetta. Il freddo è solo una pausa che prepara la ripartenza.
Quando la cultura prende freddo. Ogni popolo, come ogni corpo, ha imparato a rispondere al clima. Il freddo o il caldo non modellano solo il paesaggio, ma il modo in cui stiamo al mondo.
Nel Nord, dove il gelo domina e la luce è breve, la gente impara la concentrazione. Non spreca parole: conserva il calore anche nel linguaggio. Il silenzio diventa una forma di rispetto, la casa un rifugio morale, la sauna un rito di rinascita. La vita è interiorità e misura. Nel clima temperato del Mediterraneo, si vive nell’alternanza delle stagioni. Conosce l’equilibrio: parla, crea, si emoziona, ma sa anche chiudersi. È il clima della piazza e della solitudine, della parola e della pausa. La vita è armonia dinamica. Più a sud, nel deserto, dove il calore è assoluto, l’uomo non trattiene: condivide. Apre la tenda e offre acqua al viandante. Il tempo rallenta, la parola si fa canto, la fede sostituisce la tecnica. La vita è espansione e fiducia.
Il grado umano. Dal corpo alla natura, dalla natura alla cultura, il freddo insegna la stessa lezione: ogni forma di vita deve imparare a gestire la propria energia. Trattenere, bilanciare, donare. Forse è questo il vero segreto delle stagioni, e delle civiltà: nessuna sopravvive a lungo senza saper alternare il calore e la pausa, l’apertura e il raccoglimento, il fuoco e il silenzio.
Quando il corpo prende freddo, la natura si addormenta e la cultura si plasma. Tutto obbedisce allo stesso principio invisibile: proteggere la vita nel modo più saggio possibile.
E poi, il calore che torna. Quando mando le fotografie del lago ai miei amici, rimangono incantati dalla magia di questi posti. L’altro giorno, uno di loro, un vero fotografo, di quelli che sanno leggere la luce, mi ha scritto che verrà a trovarmi. Abita molto più a sud, nella pianura padana. Ha detto che salirà un weekend dei prossimi mesi, per scattare insieme a me. Mi è sembrata una piccola promessa di calore che ritorna, sotto forma di incontro.
//
Sotto la coltre,
la terra ci fermenta,
l’anima d’amor.//
Essere porta
Porta,
è varco, soglia,
non muro, non mare,
cerniera tra mondi
che si sfiorano
senza conoscersi.Chi sta sulla porta
dov’è?
Non è dentro,
non è fuori.
È vertigine che respira.
È lampo che decide:
se nascere o tornare indietro.Portare,
azione di peso:
è rispetto,
è dono,
è tenere in braccio il dolore
senza lasciarlo cadere.Porto,
porta d’acqua e di pietra,
confine che abbraccia
e cheta.
Navi travagliate,
tempeste bestemmiate,
pregando che lei sia ancora lì.Sopportare,
restare,
quando tutto spinge via.
Essere colonna
quando il peso trabocca,
pazienza nella forma
della fame e della seta.Porti te stessa
come un segreto luminoso.
Identità che cammina,
fiducia che non chiede scusa,
bellezza che non deve passare
da nessuna porta
per essere accolta.
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