Carlo Meazza: “Fotografare significa fermarsi e attendere che accada qualcosa di vero”

Nel suo nuovo libro la fotografia si fa racconto, relazione e tempo condiviso. Presentazione alla Libreria Ubik di Varese sabato 20 dicembre ore 18

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Quando incontri Carlo Meazza per parlare di un suo libro, si finisce quasi sempre per discutere dell’universo mondo. Soprattutto dei suoi incontri, nei quattro angoli della Terra. Meazza, con i suoi folti baffi e lo sguardo profondo, ricorda fisicamente il grande sapiente armeno Georges Gurdjieff, a cui Adelphi ha dedicato il libro Incontri con uomini straordinari. Anche il suo modo di guardare alle vicende umane attraverso la fotografia gli assomiglia.
La profondità dello sguardo del fotoreporter varesino va ben oltre la tecnica e la sua amata Nikon. È il frutto di una conoscenza dell’animo umano e di una sensibilità che non si insegnano a scuola. «Il nuovo libro “Carlo Meazza 80. Sguardi sul mondo” – racconta Meazza – non è una semplice raccolta di fotografie. Volevo costruire un racconto. L’idea è maturata rivedendo le immagini una per una, chiedendomi quali parlassero davvero di una vita e non solo di un momento. All’inizio pensavo a un ordine cronologico, ma non funzionava. Il filo conduttore non è il tempo, ma lo sguardo».
Il libro è suddiviso in quattro macro-capitoli, Terre lontane, Incontri, Paesaggi, In cammino, che racchiudono 19 capitoli: dal Tibet all’Uganda, dall’Iran alla Cambogia, dal Libano all’India, passando per l’amata Varese e il Monte Rosa, fino alla transumanza delle pecore in Lombardia.
I testi sono di Marta Morazzoni, Giuseppe Cederna, Roberto Piumini, Carlo Meazza, Robi Ronza, Rachele e Pietro Meazza, Claudio Piovanelli, Giovanna Brebbia, Enzo Laforgia, Betty Colombo, Giuseppe Armocida, Antonio Bulgheroni, Renzo Basora.

“Carlo Meazza 80. Sguardi sul mondo” è un libro carico di pietas che guarda all’umanità con occhi affettuosi…
«Non l’ho mai pensato come un libro autocelebrativo. Le persone fotografate raccontano se stesse. È vero, gli sguardi sono lì, presenti, e questo rende il libro affettuoso, nel senso più autentico del termine».

Meazza, perché ha scelto di aprire il libro con il Tibet?
«Era il capitolo più forte, quello più fuori da tutto. Non era l’inizio naturale, ma era quello giusto. A volte bisogna cominciare dal punto più lontano».

Nei suoi scatti ritorna spesso il tema dell’attesa. Perché è così importante aspettare?
«Fotografare significa soprattutto saper aspettare. Serve solitudine, ma non isolamento. Devi essere completamente presente. Se non lo sei, non succede nulla. Quando invece resti, il soggetto non ti vede come un intruso, ma come un essere umano davanti a un altro essere umano. Non cerco conferme, non mi interessa dimostrare qualcosa. Ciò che importa è che accada qualcosa di vero. Quando succede, lo senti subito: è una sensazione reale».

Torna spesso nei luoghi che ha fotografato?
«Tornare è fondamentale. Non per rifare le stesse foto, ma per vedere che cosa ha fatto il tempo. È una delle cose che oggi mi interessa di più».

Nel capitolo dedicato all’India c’è una foto che ritrae Madre Teresa di Calcutta alla messa mattutina. Perché è così importante cogliere l’ordinario per far emergere lo straordinario?
«Perché quelli sono momenti veri, in quanto marginali. Un gesto, uno sguardo, una pausa. È lì che si vede davvero una persona. I miei non sono mai ritratti celebrativi».

In copertina c’è la foto di un bambino palestinese scattata in Libano che monta un asino al contrario. Perché ha scelto proprio quella?
«All’inizio c’erano pareri discordanti e molte critiche. Poi mi sono reso conto che era la sintesi del libro. È un’immagine nata quasi per caso, ma contiene tutto: infanzia, resistenza, ironia, paesaggio. Il bambino così si divertiva e al contempo non perdeva di vista le capre. A volte una fotografia giusta arriva così».

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Presentazione alla Libreria Ubik di Varese sabato 20 dicembre ore 18

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Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

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Pubblicato il 19 Dicembre 2025
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