Il razzismo è una marcia trionfale verso l’ignoranza
All'università dell'insubria un incontro con Michele Sarfatti, Gianfranco Moscati e Fabio Minazzi per il Giorno della memoria. «Se avesse vinto il nazifascismo voi non avreste studiato Einstein, Marx e nemmeno Freud»
«Il razzismo è una marcia trionfale verso l’ignoranza. Se avesse vinto il nazifascismo, voi non avreste studiato Einstein, Marx e nemmeno Freud». Michele Sarfatti, direttore del Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea), ha davanti a sé circa 300 studenti delle scuole superiori di Varese che ascoltano in silenzio. La sua non è una lezione di storia, quanto piuttosto di consapevolezza rispetto alle ragioni che hanno portato alla shoah e anche a quanto sta accadendo in questi giorni in Francia.
In Europa soffia ancora una volta un vento pericoloso, dove le facili generalizzazioni prevalgono sulle analisi sensate. Nei momenti di crisi sociale l’antisemitismo si impenna perché «gli ebrei sono il capro espiatorio più sperimentato ed efficiente della storia». In piazza a Parigi sono apparsi i cartelli “Je suis Charlie” ma nessuno con la scritta “Je suis juif”, cioè “Io sono ebreo”.
L’incontro con Michele Sarfatti e Gianfranco Moscati, ebreo milanese che si mise in salvo in Svizzera passando da Gavirate e Gaggiolo, rientra nelle iniziative per il Giorno della memoria organizzate dall’Università dell’Insubria. Due testimonianze stimolanti che hanno aiutato i ragazzi ad analizzare il fenomeno razzismo partendo da quanto viene raccontato e soprattutto ignorato nei testi ufficiali di storia. «La svolta epocale – ha spiegato Sarfatti – è stata l’esclusione dal diritto di cittadinanza degli ebrei. Come nella canzone di Enzo Jannacci, “Vengo anch’io, no tu no”». La revoca dei diritti agli ebrei italiani ha interrotto un processo iniziato nel Risorgimento e dopo la cacciata dalle scuole pubbliche, dall’esercito e dalle istituzioni è arrivato il declassamento a cittadini di seconda categoria. «Fu una scelta che Mussolini fece ben prima di Hitler» puntualizza il direttore del Cdec.
Anche Gianfranco Moscati, prima di sfollare a Gavirate e trovare riparo in Svizzera, si sentiva più italiano degli italiani. Era orgoglioso di avere un fratello che combatteva in Africa e il fatto di essere ebreo non gli aveva mai provocato grossi problemi. «In realtà fu il mio datore di lavoro ad avvertirmi – ha raccontato Moscati -. Mi disse in dialetto milanese: “Vai, perché se ti prendono ti ammazzano”. E io non avevo certo voglia di vedere la faccia dei tedeschi». Quest’uomo, che ha appena compiuto 91 anni e ha scelto di vivere a Locarno, continua a raccogliere testimonianze e documenti sulla shoah e sull’ebraismo italiano, di cui una parte è stata donata a un museo di Londra.
«Nel Novecento – ha spiegato il filosofo Fabio Minazzi – c’era una cultura razzista condivisa e diffusa perché strettamente legata alla colonizzazione». In Italia però l’omologazione degli intellettuali ha assecondato il processo di emarginazione degli ebrei fino alla loro totale esclusione dalla vita pubblica. E nemmeno i luoghi aperti della conoscenza come le università, durante il fascismo, hanno dato un contributo critico su quanto stava accadendo. «La conoscenza è fondamentale perché permette di orientarci – ha concluso Minazzi – ma chi doveva generare quella conoscenza nel Ventennio fascista non ha avuto il coraggio di opporsi. Solo dodici docenti universitari su milleduecento rifiutarono di giurare fedeltà al fascio. Pensate a cosa sarebbe accaduto se solo il 30 per cento lo avesse fatto?».
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