Per molti ebrei la shoah passò anche da Varese

In fuga verso la Svizzera vennero catturati nel Varesotto traditi dai passatori. Liliana Picciotto Fargion, del Centro di documentazione ebraica contemporanea, ricostruisce le loro storie

Studenti in viaggio verso Auschwitz (inserita in galleria)

Varese, Cremenaga, Pino, Castronno, Brissago, Ponte Tresa, Selvetta di Viggiù, a scorrere le mille pagine del “Libro della Memoria” si scopre che per tanti la strada verso la morte nei campi di sterminio, la tragedia della Shoah, è iniziata proprio qui, nella nostra provincia. Nel “Libro” dedicato agli oltre ottomila cittadini che furono deportati dall’Italia, ci sono anche quei cittadini ebrei arrestati nel Varesotto, quasi sempre da italiani, mentre erano in fuga verso il confine italo-svizzero, e che nella maggior parte dei casi erano passati dai Miogni e dal carcere di San Vittore prima di approdare, su uno dei tanti convogli blindati, all’inferno dei campi.

Una terribile verità riportata a galla dalle parole della storica Liliana Picciotto, curatrice del “Libro della Memoria”, che abbiamo incontrato presso il CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), la prestigiosa fondazione di ricerca sulla persecuzione di allora e l’intolleranza di oggi con sede a Milano, in via Eupili, nella palazzina che si affaccia sui binari delle Nord e in cui si rifugiarono ragazzi e insegnanti espulsi dalle scuole del Regno in seguito alle leggi razziali del ’38. Una storia che la fondazione ha appena messo on line (www.cdec.it), insieme a fotografie, lettere, documenti sulla persecuzione antisemita a Milano.

Ma a Varese cosa accadde? «Non si può ignorare l’importanza del Varesotto per quanto riguarda le persecuzioni nella notte di Salò – spiega la Picciotto, direttrice delle ricerche della fondazione -. Essendo un territorio di confine, qui si è verificato un gran numero di arresti tra le centinaia di persone in fuga, catturate sulla rete confinaria o anche prima di arrivarci. Qui la sorveglianza era severa”. Arresti di italiani fatti da italiani. “Quando la Repubblica di Salò tornò in sella, furono le istituzioni italiane ad occuparsi della “questione ebraica”: gli arresti tra il dicembre ’43 e il gennaio ’44 vennero realizzati da polizia e carabinieri».

La storica racconta il dramma di molti ebrei in fuga. «Molti ebrei in arrivavano a Varese senza conoscere il territorio, disorientati, correndo il rischio di cadere in trappola da un momento all’altro”. Emblematica la pagina che riguarda Agata “Goti” Herskovitz, ebrea originaria della Cecoslovacchia tradita a Cremenaga dai contrabbandieri e consegnata ai suoi carnefici. Una vicenda lunga e dolorosa, la sua, scandita da parecchie tappe: il carcere di Varese, di Como, di Milano, i campi di Fossoli, Auschwitz, Theresienstadt. Ma “Goti” fu tra i pochi che riuscirono ad uscire vivi dall’inferno».
Non mancavano anche le difficoltà legate alle ambiguità delle autorità elvetiche verso gli ebrei. «La Svizzera – sottolinea la Picciotto – non aveva una chiara politica di accoglienza. Anche se si riusciva a raggiungere il confine, poteva sempre accadere di essere respinti o consegnati ai nazifascisti».
Vicende lontane di cui il Cdec conserva puntuale memoria, in una piccola sede che custodisce più di 25mila volumi sulla cultura ebraica e ospita un’intera sezione di ricerca, diretta da Adriana Goldstaub, sulle forme del pregiudizio contemporaneo. Uno dei pochi baluardi della memoria rimasto aperto dopo che la Giunta Moratti ha “sfrattato” dalle loro sedi Anpi (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e Aned (Associazione Nazionale Ex Deportati). Un rischio che corre anche il Cdec? «No, fortunatamente la nostra sede è di proprietà della comunità ebraica».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 26 Gennaio 2008
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