Siamo tutti miserabili

E' piaciuto lo spettacolo di Marco Paolini al Teatro Apollonio. Le nostre "disperazioni" raccontate sul palco battono Sanremo

Marco Paolini parla del lavoro e della dignità, di un paese del Veneto, dei soldi che hanno preso il posto dell’identità degli operai, e poi li hanno fregati, diventando cenere tra le speculazioni finanziarie.
paoliniI Mercanti di liquore suonano e accompagnano i passaggi spazio temporale con cui Paolini descrive gli umori di una generazione e fa ridere, sorridere, commuove e fa pensare. Lo spettacolo “I miserabili, Io e Margareth Tatcher” a Varese è piaciuto molto, il pubblico ha gremito la sala, del teatro Apollonio gli applausi sono stati tanti e anche l’attore ha confessato a fine spettacolo di aver passato una splendida serata, “in concorrenza con il festival di Sanremo”.
Il nuovo spettacolo è stato scritto dall’attore insieme con i Mercanti di Liquore e l’autore Andrea Bajani. Un dialogo, tra parole e musica, per raccontare tutto ciò che è cambiato nella società, dagli anni 80 a oggi, dove Nicola, un personaggio immaginario, si fa domande e chiede spiegazioni.
Per Paolini i Miserabili sono quelli che tendono la mano ai margini delle strade, creando scenari di città alla Victor Hugo, “ma miserabili siamo anche noi, uomini-branco che accettiamo l’idea che la nostra vita sia in mano al destino scritto nell’oroscopo o alle oscillazioni della Borsa”.
"Non esistono società, ma solo uomini, donne e famiglie" è una delle frasi chiave che Paolini ripete nello spettacolo, uno dei motti della lady di ferro, della deregulation che alla fine del decennio dell’uguaglianza, gli anni settanta, rilanciò il pensiero del turbocapitalismo invocando l’individualismo più spinto.
Per Paolini è il momento chiave: si finisce di  proteggere i più deboli, da quel momento saltano tutte le regole. Nicola-Paolini strappa risate a scena aperta quando chiede alla «Signora di ferro» come mai il suo portafoglio è sempre più leggero, i Mercanti di Liquore cantano le loro nuove ballate; «Marta», ritratto di un’operatrice di un call
center, s’illude di vivere meglio del padre operaio e «Miserabile amica», impietoso elenco delle rinunce di una donna in carriera.
Secondo Paolini ci siamo illusi di vivere in una sorta di Belle Epoque mentre in verità siamo tutti molto più fragili di prima. Nel finale l’attore omaggia Gaber con una versione stravolta de “La libertà”. Ritornano spesso alcuni dei marchi di fabbrica del Paolini attore. il dialetto veneto, la saggezza popolare, l’identità dei lavoratori e degli umili, ma anche temi nuovi, un padre che si chiede perchè la figlia abbia scelto un lavoro all’estero che a che fare con la guerra, o un passaggio tratto dalla socialogia marxista degli anni settanta, con l’operaio che non vuole fare straordinari per recuperare la sua liberta nel tempo libero, “perché una volta in bicicletta si addormentò mentre pedalava e si risveglio un chilometro e mezzo dopo”.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 18 Febbraio 2009
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