“Ho amato il mio ospedale”

Il racconto di Antonia Chiaravalle. Trent'anni al Circolo come infermiera e coordinatrice

Nel suo racconto c’è la passione, l’entusiasmo di chi ha amato a fondo quello che ha fatto.L'ospedale di Varese
Antonia Chiaravalle ha passato trent’anni della sua vita all’ospedale di Circolo e sarà una delle protagoniste della serata voluta proprio in omaggio alla struttura ospedaliera e al rapporto che ha con la città.
«Quando il dottor Bergamschi mi ha telefonato per invitarmi sono stata molto contenta. Ho sentito subito che il suo entusismo era autentico e mi ha fatto tornare ai ricordi dei miei tempi quando l’ospedale era sentito dalla cittadinanza come proprio».
Quali sono i suoi primi ricordi?
«Ho iniziato il corso per infermiera nel gennaio del 1961. Era uno dei primi istituiti a Varese. Ricordo che, quando anni dopo raccontavo come funzionava, le mie colleghe non ci volevano credere. Noi lavoravamo 7-8 ore e poi avevamo 3-4 ore di lezione. Avevamo un settimana di turni di notte di 10 ore. E non solo non prendevamo una lira, ma ci dovevamo pagare anche il convitto. Ci voleva proprio una forte motivazione».
Erano anni di vera svolta anche nella sua professione e nel 1969 quando venne istituita una figura di coordinamento del settore infermieristico. Lei partecipò al primo concorso e arrivò seconda.
«Il mio maestro di vita oltre che spirituale fu Giorgio Bignardi. A lui devo tantissimo. Ho affrontato questo lavoro come chi ha realizzato il sogno che aveva nel cassetto. Credo che le persone che possono fare il lavoro che desideravano sono le più fortunate nella vita».
Lei ha una grande passione ancora oggi per quel lavoro…
«Io ho amato il mio ospedale. Ho dato tanto, ma rifarei tutto. Non ho alcun rimpianto per quel periodo e so che lo stesso vale per molte mie colleghe. Vivevamo insieme e questo creava spirito di corpo».
Non sarà stato tutto rose e fiori?
«Era molto impegnativo e occorre considerare che a quei tempi il corso per infermiere era tutto al femminile. Eravamo quasi tutte zitelle perché con quei ritmi di lavoro non si poteva conciliare una vita familiare. MI sono sposata quando sono andata in pensione e pensi che non ho usufruito nemmeno del congedo matrimoniale. Oggi sono nonna di cinque nipoti perché mio marito era vedovo e aveva già due figlie».
L’episodio più brutto che ricorda?
«La morte di un bimbo di un anno e mezzo. Aveva gravi ustioni e non ce l’ha fatta ed è morto una notte che ero di turno. Facevo il secondo anno del corso e andai molto in crisi. Volevo lasciare. Ancora oggi ricordo in modo forte quella sofferenza per questo bambino».
E il ricordo più bello?
«Ce ne sono tanti da far fatica a ricordarli, ma penso che l’emozione più grande sia veder guarire una persona. Una gioia vederlo tornare per salutare e ringraziare».
Il paziente più famoso?
«La moglie di Renato Guttuso e un ortopedico molto noto di Milano. Fu ricoverato da noi dopo un incidente mentre era in vacanza qui. Poi certamente Susanna Spietzer che lavorava alla Bassani Ticino. Lei prese molto a cuore l’ospedale e permise un grande rapporto con il dottor Bassani che fece diverse donazioni. Lei stessa quando morì ci lasciò molto. Era davvero una bella persona».
Diceva che l’ospedale negli anni scorsi era sentito come proprio dalla città. Ora non lo è più?
«Sono tanti anni che è così. L’ospedale non è più percepito come un patrimonio comune, ma solo come un erogatore di servizi. Ho bisogno e vado, ma niente di più».
Come mai?
«Non lo so. I tempi sono molto cambiati, la città è cambiata. Prima Varese era un piccolo borgo e i primari erano così pochi che tutti li conoscevano. Oggi nell’ospedale gira un esercito e ci sono oltre 4000 dipendenti. Per questo sono contenta dell’iniziativa di cercare di riportare questa importante realtà più vicina ai cittadini».
Lei è mai stata nel nuovo monoblocco?
«Si e mi ci perdo ogni volta. Come diceva il professor Bignardi le idee camminano sule gambe degli uomini. Se c’è a capo una persona con una grande passione le cose funzionano. Questo vale oggi come ieri, anche se va detto che allora il senso del dovere era maggiore. Oggi mi spiace trovare personale che lavora con fatica ed è scontento. È una cosa che si sente e percepisce. C’è anche da dire che è cambiata molto anche l’utenza e si trovano molte più persone sgarbate e intolleranti».
Antonia Chiaravalli ha ancora tanto da raccontare e le sue parole scorrono leggere e piene di un entusiasmo contagioso. Un esempio positivo e importante per chi si avvicina ancora con entusiasmo ala professione sanitaria.
Tutto è più complesso, ma l’amore per il prossimo e per il proprio lavoro restano gli ingredienti forti di questa storia.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 15 Aprile 2010
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