Quando il lavoro diventa dolore: la “morte bianca” in versi

Il signor Luciano Piazza, morazzonese, associato Anmil, ex specialista in forni in refrattari, ha scritto poesie sulla malattia professionale che lo ha colpito e sulla "croce d'amianto" che gli ha portato via un cugino

Lavoro e fatica sono da sempre sinonimi. Che lo debbano essere lavoro e dolore, lavoro e morte, appartiene più allo schiavismo che all’era dei diritti. Eppure è realtà, da sempre. Si celebrava domenica 10 ottobre la sessantesima giornata nazionale di Anmil, l’associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro. Solo in provincia di Varese, Anmil ha circa 5500 iscritti, ognuno con la sua storia. Una di queste è particolare, e la sua urgenza di farsi raccontare è sfociata anche nella poesia. Come quella, semplice e da autodidatta («ho la quinta elementare, la mia è una cultura operaia»), ma per questo più preziosa, di Luciano Piazza, morazzonese «da quattro generazioni», classe 1936. Con gli aforismi dell’amico Silvano Pedroni a tenere compagnia alle sue poesie, ha fatto stampare alcune centinaia di libretti distribuiti nelle occasioni di incontro Anmil, ma anche all’Inail. A legare tutto, «il filo dell’etica e del dolore». Quello per la perdita di amici, colleghi, parenti; per la perdita della salute.

Per una vita il signor Luciano è stato operaio, "fornellista" come tanti del suo paese e delle zone circostanti del Varesotto: uno specialista del lavoro sui forni industriali. Posa, manutenzione, demolizione di strutture indispensabili in una stupefacente varietà di differenti settori, in cui ha lavorato per decenni, negli anni della grande fede nel futuro e nel progresso, della crescita dell’Italia da nazione povera in canna a Paese fra i più ricchi al mondo, da cenerentola a protagonista orgogliosa. Il prezzo è stato alto, e tanti, fra i colleghi del signor Luciano, già non ci sono più. Li hanno colpiti la silicosi, il mesotelioma pleurico, e tanti altri mali meno immediatamente identificabili e collegabili con sostanze tossiche e irritanti del sistema respiratorio.
«La mia è una storia ormai un po’ rara, non siamo in tanti a poter raccontare» premette. «Parliamo dei forni in refrattari, oggi non si usa più l’amianto, bandito dal 1992, ma la fibroceramica» (a sua volta non priva di rischi per la salute). Raffinerie, cementerie, acciaierie, inceneritori: ovunque ci fosse un forno da installare, riparare, demolire e ricostruire, il signor Luciano e i suoi colleghi c’erano. Dal 1954 ha lavorato nel settore; da trentotto anni è iscritto all’Anmil. Nel 1980 la conferma della malattia professionale: «Poco più che quarantenne, soffrivo di dispnea, difficoltà di respiro, fiato corto. Non avevo mai fumato in vita mia. Silicosi puntiforme a entrambi i polmoni, la diagnosi». Da allora, metà della vita in cura e sotto controllo: corticosteroidi, antibiotici, inalataori, spirometrie, raggi. Una storia su 5500, accanto a quelle dei mutilati, degli storpiati. Quella delle malattie professionali è una galassia a parte. «Ogni anno in Italia mille morti per incidenti sul lavoro… e quattrocento per malattia professionale, non sono pochi». Specialmente considerando che sono solo i casi riconosciuti.
«Generazioni di lavoratori si sono impegnate senza esatta cognizione del pericolo: varesotti, bresciani, siciliani, in Italia e all’estero. Lavoravamo di buona lena, con soddisfazione, perchè nel nostro settore eravamo trasfertisti, avevamo anche una buona paga. L’amianto nessuno sapeva cosa fosse in realtà, e che male facesse: oggi, quando ai nostri convegni entrano i dottori e spiegano, a volte esco, non ce la faccio. Il mesotelioma pleurico riduce i polmoni a un pugno, è terribile. Mio cugino, amico e collega di lavoro, Vanetti Mario, morazzonese come me, se ne è andato così, a settantuno anni. Delle mie poesie gliene ho dedicata una: La Croce d’Amianto»

Una vita di lavoro in giro, «uno degli ultimi lavori l’ho fatto a Bangkok, in Thailandia, nei primi anni Novanta, forni a induzione». E nei decenni, le raffinerie di Pero, Sannazzaro de’ Burgundi, Taranto; inceneritori, come a Milano o sulle colline di Riccione, «dove la puzza si sentiva per chilometri»; acciaierie, impressionanti cattedrali del lavoro industriale, come la Breda di Sesto San Giovanni. Forni di tutti i tipi, e quasi sempre della polvere. Di silice, come quando «si usavano ancora i dischi abrasivi per tagliare, mica quelli diamantati con l’acqua, come oggi», e si inalava, «perchè anche le mascherine non tenevano niente», sempre che le si avesse; o di amianto, quel materiale che pareva utilissimo, costava niente, si suava ovunque, dall’edilizia appunto ai forni,sotto forma di eternit. «Quando si tagliavano i cartoni per foderare i forni, la polvere volava; e così quando si posavano le lastre, candide come antiche vestali romane» ricorda in un tocco di lirismo. «Ma un solo centimetro di amianto tagliato rilascia qualcosa come 36mila fibre» dice, e la sua voce, già leggermente infiacchita da decenni di malattia, si fa roca. Gli effetti cumulativi sono devastanti, «ed è tra il 2010 e il 2015 che si vedrà il picco dei morti e malattie. Del nostro gruppo di lavoro, hanno cominciato ad ammalarsi e morire alcuni già a sessant’anni, poi mano mano in parecchi ci hanno lasciato, ne ho conosciuti parecchi che non sono più fra noi, anche del mio paese». Fra cui il cugino. E non tutte le malattie professionali sono state riconosciute: «perchè l’amianto non attacca solo i polmoni, ma anche il fegato, l’intestino…» Il suo unico sicuro marcatore riconosciuto è il mesotelioma pleurico. La Croce d’Amianto che toglie il respiro.

La croce d’amianto

Forse tu non lo sapevi
quando mi lavavi
i miei panni di lavoro
che erano intrisi
di una polvere bianca.
Il mio respiro affannoso
e la mia mano stanca
mi ha accompagnato
con il tuo fedele amore
sempre con il sorriso.
Tenevi solo per te il pianto
giorno dopo giorno
sopportavi con me
la mia croce
d’amianto

Luciano Piazza
Anmil Varese

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 13 Ottobre 2010
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