Lezione d’adolescenza per gli studenti del Tosi

Appassionante incontro al cinema Lux per i ragazzi dello scientifico che hanno incontrato l'autore del libro "Bianca come il latte, rossa come il sangue"

 Ha saputo tenere incollati gli studenti del liceo scientifico Tosi di Busto incalzandoli con provocazioni, consigli, pungoli, esortazioni, ma anche battute spiritose e brillanti, calandosi alla perfezione nei panni di un adolescente, ma con l’autorevolezza di un prof. Alessandro D’Avenia, lo scrittore del fortunato libro “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, sabato mattina al teatro Lux ha coinvolto più di trecento studenti del liceo scientifico Tosi riscotendo un lusinghiero successo. 

 
«L’adolescenza è un’età straordinaria. Si è alla ricerca della propria identità. Ma quell’identità non è fuori dalla persona, ma all’interno.E’ nascosta da qualche parte e l’obiettivo per un adolescente è quello di raggiungere quell’immagine. Diverso da Narciso che è annegato nella sua immagine, che ha anche ricercato fuori da sè. Compito dell’insegnante: aiutare il ragazzo a scoprire e raggiungere  quell’immagine, andando alla scoperta dei talenti del ragazzo. Quindi l’immagine che l’adolescente cerca non s’incarna in un idolo esterno.
 
Perché quel titolo?
«A parte la favola di Calvino, citata all’inizio del 
romanzo, ho tratto spunto dai miei alunni in un tema dal titolo “Ricordi bianchi, rossi e azzurri”, in cui i ragazzi dovevano associare i loro ricordi dell’infanzia ai colori».
 
«Non abbiate paura del dolore. E’ più grande della vita. E’ la terapia più salutare che ci dice che sulla vita non c’è controllo. La vita accade in noi senza che noi la possiamo controllare. La vita è un dono e va protetto. Nel libro il bianco è al servizio del rosso. L’ultima parola spetta comunque sempre al rosso».
 
«Nella vita l’esperienza del dolore fa crescere. Se tra Renzo e Lucia non si fosse frapposto don Rodrigo, Renzo non avrebbe avuto modo di crescere, maturare e probabilmente il loro matrimonio sarebbe durato due settimane. Laddove c’è un ostacolo, c’è un’esperienza di crescita. Leo è cresciuto e alla fine del romanzo si è impossessato di tutti i colori della sua vita (episodio di Arlecchino)».
 

Il valore simbolico della panchina.
«Non è solo un luogo reale, ma 
metaforico. E’ il luogo da cui si riesce a guardare con un po’ di coraggio il mondo. E’ quel silenzio che consente di stare soli con se stessi e ritrovare se stessi».

 Quando ha iniziato a scrivere la storia, sapeva già come sarebbe andata a finire?
«No. Quello che sapevo è che c’era un ragazzo 
innamorato di una ragazza malata. I personaggi e la storia si sono creati in fieri. Il bello della scrittura: quando i personaggi bussano al cuore e chiedono di nascere».

I personaggi li ha realmente conosciuti?
«Terminator è il cane del mio 
vicino. Leo e Beatrice sono nati così. Ero ai primi anni d’insegnamento, quando mi assegnarono una supplenza di un’ora. C’era un ragazzo che mi raccontò la sua storia: era innamorato di una ragazza che poi si è ammalata ed è morta. Quando raccontiamo la nostra storia ricordiamo solo certi momenti: in cui si riceve amore, momenti di sofferenza e tempi in cui si compiono delle scelte personali. Nel volto di quel ragazzo io ho letto una trasformazione: dopo quell’esperienza, da bambino è diventato un adulto. Quindi il romanzo è nato da una supplenza. Silvia, i genitori e il sognatore sono nati dopo».
 
Che cos’è la famiglia?
«E’ l’unico luogo in cui si è amati per quello che 
si è e non per quello che si fa; in cui s’impara a rendere felice l’altro e a donare all’altro”.
 
Beatrice è davvero contenta di morire?
«No. Beatrice non è contenta di 
morire, ma ha scoperto cosa significa saper morire. Ci sono due episodi che hanno segnato la mia vita. Il primo riguarda una mia zia, morta a 39 anni per un cancro. Ricordo l’ultima sua frase: “Sono stanchissima per i dolori, ma sono contenta di quello che la vita mi ha dato e perché ora mi aspetta un Padre”. Questo significa saper morire, non voler morire. Un secondo episodio riguarda una lapide vista un giorno al cimitero: c’era la foto di una bella ragazza, accanto alla quale era scolpita l’ultima pagina del suo diario. Da qui l’idea di affidare il diario di Beatrice a Leo».
 
Qual è la funzione del T9 e del telefonino?
«Come tutti i mezzi di 
comunicazione (internet con mail, telefonini con sms) sono mezzi che ci trascendono e rappresentano un dialogo di cui abbiamo bisogno. Infatti quando siamo tristi inviamo sms o mail. Questo perché si sposta l’attenzione verso un bisogno più grande. Forse un affetto che ci
manca».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 23 Novembre 2010
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