Mazzini, Garibaldi, Cavour: padri nobili, ma dimenticati

Il convegno con la presenza fra i relatori di Mario Cervi chiude la tre giorni di celebrazioni per i 150 anni dell'unificazione nazionale. "L'unità fu un miracolo, un momento irripetibile: perchè buttarlo via?"

La Storia: non per circoli elitari, ma con il popolo e per il popolo che giorno per giorno la scrive. Sarebbe piaciuta tanto ad Abramo Lincoln la chiave di lettura scelta dall’amministrazione comunale di Solbiate Olona per dare il via al convegno dedicato a tre figure di padri della patria: Camillo Benso, conte di Cavour, l’abilissimo ministro piemontese artefice delle condizioni politiche che permisero l’unificazione nazionale; Giuseppe Garibaldi, l’Eroe dei Due Mondi, personaggio a tutto tondo; Giuseppe Mazzini, il repubblicano genovese ispiratore di ideali generosi e rivoluzioni soffocate, grande "perdente" delle lotte risorgimentali ma sempre rimasto riferimento di pensatori e patrioti.
Presso l’Auditorium solbiatese, davanti ad una platea in cui non mancavano autorità civili e militari, ma anche studenti, con due classi seconde medie, e il "sindaco dei ragazzi", il 14enne Simone Colombo, sul palco con il maggiore dell’esercito Vincenzo Ciaraffa a moderare, erano presenti Mario Cervi, giornalista e scrittore di fama; il professor Vittorio Emanuele Parsi, docente presso la Cattolica di Milano; il professor Giuseppe Armocida dell’UnInsubria, Luigi Barion presidente di "Varese per l’Italia", comitato varesino per le celrazioni del 150enario; e ancora il prefetto Simonetta Vaccari e il generale Gianmarco Chiarini, comandante del Corpo d’Armata di Reazione Rapida NATO a guida italiana (Nrdc-It) di base presso la caserma Mara in Solbiate Olona. Aspetti dunque storici, militari e istituzionali per chiudere la "tre giorni" che ha pavesato di tricolore Solbiate. E che ha visto anche un episodio da libro Cuore, narrato dal maggiore Ciaraffa: due residenti extracomunitari hanno espresso il desiderio di acquistare la bandiera italiana dai negozi che la esponevano. «Che vi interessa, siete stranieri» gli ha opposto qualcuno. «No, siamo in Italia e vogliamo essere italiani».

Dopo una versione soft e con (splendida) voce femminile dell’Inno di Mameli, ricondotto da impetuoso inno di battaglia a canzone d’amore per l’Italia, il Prefetto Vaccari ha consegnato al sindaco Melis la medaglia commemorativa voluta dal presidente della Repubblica Napolitano. Melis confermava l’intenzione di creare in Solbiate un centro di Studi patri che almeno una volta l’anno faccia incontrare studiosi di fama; Vaccari leggeva un testo del Presidente Napolitano che invitava a liberarsi dei complessi, a superare «l’eccesso di orrore per la retorica» che «ci fa riluttanti a parlare di eroi». «C’è molto bisogno di senso unitario, di attingere energia e fiducia dal passato, specialmente in tempi di crisi»: così Vaccari, che nel suo intervento avrebbe ripercorso il ruolo di portatori locali del poter centrale ricoperto fin dal 1865 dai prefetti, elementi chiave della costruzione unitaria di un Paese nato diviso da enormi differenze, soprattutto di lingua.

Risorgimento vuol dire molte cose: ad esempio, la nascita di un esercito. Che forse, esisteva già prima della data ufficiale del 4 maggio 1861, quando la nota del ministro Manfredo Fanti la dispose, creando quello che da subito fu «un esercito sabaudo allargato» in cui i piemontesi erano meno del 10% dei soldati e il 50% degli ufficiali. Fu quello che represse con ferocia il brigantaggio al Sud e fece magra figura nella terza guerra d’Indipendenza a Custoza, che giustapponeva gli "istituzionali" fedeli alla corona sabauda ai "pratici" venuti dal campo, e, come Fanti, anche da esperienze estere. La massima lode dal generale Chiarini andava a un "non-generale" come Garibaldi, mai accettato fra i ranghi ufficiali: «Fu un grande comandante sul campo» ha detto, analizzando la gestione intelligente anche di una battaglia "regolare" come quella del Volturno, con idee moderne come quella di servirsi della ferrovia per spostare le riserve dietro Capua  parare l’assalto borbonico. Mossa vincente.

Mario Cervi del Cavour dice che non era proprio un simpaticone. «Ma un ‘piacione’ l’Italia l’avrebbe fatta?» chiedeva maligno il maggiore Ciaraffa. «Domanda antipatica, quando l’Italia è affidata ad un tipico piacione» rispondeva Cervi, distinguendo dal politico lo statista, che sa porre l’interesse generale sopra quello di fazione, o peggio ancora personale. E Cavour, «genio più di Tremonti, e antipatico quanto lui», statista era, come Mazzini, per quanto bollato di «utopista e menagramo» dai detrattori del tempo, o lo stesso Garibaldi: «tutti ispirati da grandi ideali, non da politica di parte, o da quella sotto le lenzuola». «Momento straordinario e irripetibile, un miracolo» quello dell’unificazione: perchè gettarlo via? Oggi la Lega «del tricolore sappiamo cosa vuol farsene», al sud avanza il revisionismo filoborbonico secondo cui prima della calata dell’orda dei Savoia il Sud era progredito e felice. Tesi che appagherà certo piagnisteo meridionalista, ma è storicamente insostenibile. «Deluso e amareggiato» quindi Cervi nel vedere maltrattare i protagonisti del processo di unità nazionale, un secolo e mezzo dopo: la sintesi è spietata. «Il Paese è figlio di quel principe di casa Savoia che se finiva una guerra dalla stessa parte da cui l’aveva cominciata, voleva dire che aveva cambiato alleanza due volte».

Ricca di spunti, la riflessione del professor Parsi sul difficile rapporto fra unificazione e cattolici, o meglio fra le classi dirigenti dell’Italia unificata e la gerarchia vaticana stretta intorno a Pio IX: Papa beatificato nel 2000 «ma che ancora ghigliottinava i liberali». La lettura di Parsi andava a toccare i nodi delle rotture e delle continuità storiche e il tiepido sostegno all’unità, "fatta" non dalla povera gente che aveva ben altro cui pensare, ma perlopiù da borghesi, studenti, intellettuali. «Chi sostiene l’unità d’Italia oggi non lo fa per Garibaldi, Cavour o Mazzini» riconosceva tristemente il professore, «ma più per la Cassa del Mezzogiorno, o per Mike Bongiorno». L’Italietta prevale sull’Italia alta, convenienze e abitudini sulla Storia, «la paura di non farcela da soli» sulla volontà di stare insieme. Chi rema invece in direzione dell’unità? Le forze armate, dice Parsi. Ma nel paese serpeggia lo scoramento: e il disprezzo per tutto ciò che sa di intellettualità, come dimostra l’incomprensione di una figura come il Mazzini da un lato (gabellato persino per ‘terrorista’, per l’enfasi sull’azione rivoluzionaria e il tirannicidio, ripresa poi dalla Resistenza), dall’altro il disinteresse «sostanziale e bipartisan, al di là dei discorsi», della politica per il mondo della scuola e dell’università. Il rifiuto della meritocrazia, «l’incapacità di chiudere i conti col passato e di guardare avanti», il «disconoscimento delle competenze». Quello per cui, morto un militare in missione, si commenta: «Non poteva fare altro, ha fatto il soldato». Per cui, «basta sconti, poniamo un limite: fin qui, ma non oltre. Da lì, è colpa vostra, non mia».

Il professor Armocida dedicava il suo intervento alle donne: «La vera unificazione è quella della primavera del 1946: per la prima volta, le donne votano e partecipano pienamente alla vita del Paese. Non a caso oggi abbiamo qui un Prefetto donna. Che Risorgimento avremmo avuto senza madri come Adelaide Cairoli o le romane che nel 1849 curavano i feriti, ma imbracciavano anche il fucile?» Idem, che repubblica senza le partigiane? «Attenzione, perchè oggi c’è un’aggressione a questo tipo di repubblica e alla Costituzione del 1948, dobbiamo porci a difesa di un’unità che è a rischio».
Barion, infine da buon varesino, ricordava che è a Varese che sventolò nel 1859 il primo "vero" tricolore d’Italia (quello napoleonico di Reggio Emilia «era della Repubblica Cisalpina, altra cosa») a Biumo nei giorni della battaglia di San Fermo, quando Garibaldi dirigeva i combattimenti dalla panchina in cima al colle-osservatorio dove sorgono le Ville Ponti. Cosa ne sanno i giovani d’oggi? Niente. Alla domanda su chi fossero i Cacciatori delle Alpi, «ragazze di uno dei licei più prestigiosi della città dicevano: certo, quegli inglesi che venivano a caccia qui in montagna…»
Il maggiore Ciaraffa rivangava infine certe avventure di Garibaldi con le donne (il matrimonio con la marchesina Castiglioni, finito all’uscita dalla chiesa: aveva scoperto che era già incinta…), chiedendo se queste non lo rendessero più popolare. Barion ha risposto satiricamente: «Fosse così, Berlusconi diventerebbe immortale». A lui anche rievocare il quarto "convitato di pietra": Carlo Cattaneo, caro alla Lega. «Se Cattaneo fosse qui ora, parlerebbe di federalismo italiano, o europeo? Dobbiamo pensare a un disegno continentale compiuto» l’invito di Barion, «saper sognare come hanno sognato i ragazzi del Risorgimento, tenendo mano ferma sulla Costituzione».

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Pubblicato il 08 Novembre 2010
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