Rugby: che succede a Varese?

L'ex tecnico biancorosso legge la difficile situazione creatasi a Giubiano negli ultimi mesi. L'ultima novità è l'addio definitivo di John Akurangi

(d. f.) Alessandro Borghetti (nella foto) è stato, con Massimo Tallarino, l’allenatore del Rugby Varese fino allo scorso anno. Ospitiamo questo suo contributo nei giorni in cui, sul campo di Giubiano, la squadra biancorossa sta vivendo un momento difficile: dopo il ritorno in panchina di Peppo Pellegrini, si è infatti dimesso in via definitiva John Akurangi che da coach era passato ad allenare la mischia. Con la squadra in difficoltà da mesi sul piano dei risultati.

Siamo ormai prossimi al Sei Nazioni, il più importante appuntamento rugbistico del vecchio continente. La nazionale italiana tiene banco sulla stampa, non tanto per l’ambizione di vincere il Torneo, quanto per la notizia, ormai certa, dell’arrivo, si dice dopo i Mondiali, ma io credo dopo il Sei Nazioni, del tecnico francese Brunel, campione di Francia con Perpignan due stagioni fa e vice di Laporte alla guida di una delle più forti nazionali francesi.
Che senso ha far trapelare una notizia del genere a sei mesi dai Mondiali? È la pessima consuetudine, tipica della Federazione Rugby e non solo di essa, della poca chiarezza, del far succedere le cose come conseguenza di accadimenti apparentemente fortuiti (si aspettano le dimissioni di Mallet) e non come frutto di una scelta fatta da un’organizzazione forte e coerente, capace di assurmersene la responsabilità. Se Mallett non rientra più nei piani tecnici della Fir lo si dica e si volti pagina. In campo avremo un rugbista che sceglie e non che subisce le scelte, un rugbista che si adatta al gioco e non che ne riproduca in maniera standardizzata un modello preconfezionato.

Si, perché in campo, nel passaggio soffice della palla al compagno, nel più bello dei gesti tecnici al piede, nel cambio di direzione che ti porta alla meta, ci va un club, con la sua storia, organizzazione e appartenenza.

Il più giovane della squadra raccoglieva un euro sul bus da ogni compagno, panchina compresa, qualcuno, sempre i soliti, diceva di non avere il borsellino, a fine giornata c’erano ventidue maglie da lavare e diciotto euro e qualche altro, sempre il solito, ci rimetteva quattro euro… I soldi raccolti servivano per pagare il lavaggio della maglia, un euro a capo, consegna a domicilio, ossia la nostra casa, campo di Giubiano… Stiamo parlando di una squadra di rugby di serie B, fieramente dilettantistica che in campo e fuori proponeva un rugby divertente e soprattutto un modo di essere e di fare rugby controcorrente, forse, ormai, unico. Tutto ciò accadeva solo un paio di anni fa e non si sta parlando di tempi andati, lontani, e dei pionieri della pallaovale e nemmeno di un periodo senza difficoltà o momenti critici. Che succede oggi a Varese in una surreale normalità? La riposta è più semplice del previsto, il rugbysta deve avere il coraggio di prendere la palla in mano e fare una scelta; dopo mesi di colpevole silenzio da parte della stampa locale abbiamo letto in questi giorni tutto e il contrario, riguardo cambi di allenatore, dimissioni di dirigenti, club pronto o meno al professionismo, dimenticandosi in questo caso che prima che retribuiti per essere professionisti occorre essere competenti e professionali, ultimatum di giocatori e quant’altro: è troppo semplice, però, a mio parere far capire cosa succede a Varese trovando un colpevole o una colpa.
Il problema di Varese non è la classifica, perché in un passato non molto lontano si vinse solo una partita in un intero campionato, ma per i più, fu un degli anni più belli della propria carriera di rugbista. La questione, semmai, è che oggi il Rugby Varese appare molto distante dalle sue radici culturali, dal proprio modo di essere che da sempre è stato il valore aggiunto del Club. Ambire alla serie A deve essere certamente il sogno di ogni rugbista varesino, non si discute l’obiettivo, ma su come si sceglie di arrivarci: non si può tagliare il ramo su cui si è seduti, il problema è tutto qui. Si aggiunga a ciò, che giocare per divertirsi, a lungo lo slogan dei rugbisti varesini, è diventato giocare quando ne ho voglia… La scelta del club di tagliare il recente passato a seguito dei proclami di "una nuova era" voluta dall’ormai, prima ex direttore tecnico, poi ex tecnico, e ancora ex responsabile del pacchetto di mischia, non ha pagato, se non profumatamente lui, non solo per oggettiva scarsa competenza, o non solo per quello, ma perché socialmente e culturalmente lontana dalle radici che nella continuità di stile hanno sempre trovato linfa vitale. L’importanza di aver sempre nel cuore e nella testa la cultura del club, quella che imbarazza ancora i pluricampioni di Toulouse quando, durante il riscaldamento pre-partita a Parigi, a casa dello Stade Francais, girano donne per il campo con le tette al vento e tigri al guinzaglio, per uno spettacolo nello spettacolo, che i tolosani, legati alla loro terra, al loro modo, alla loro cultura, detestano…
Che succede allora a Varese? Succede simbolicamente che qualcuno crede ancora che il futuro del rugby italiano passi per una bella figura al Sei Nazioni o per un posto tra i primi otto al mondiale. Pensare ai risultati prima che all’organizzazione, al gioco, scimmiottare l’uno o l’altro modello rugbistico non crea cultura, al contrario non vergognarsi delle proprie sconfitte, portare in campo con orgoglio i propri limiti e le proprie risorse, creare un modello italiano di fare rugby con i giusti tempi, rispettato per ciò che è e non per quello che dovrebbe essere, porterà certamente anche uno spirito vincente. Ma soprattutto ciò vuol dire avere a cuore l’interesse collettivo del rugby italiano, prima che quello personale. Se è vero che spesso il potere non è la causa della corruzione non deve però permettere che essa abbia la possibilità di esprimersi.

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Pubblicato il 24 Gennaio 2011
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