Buon compleanno, Italia

A giorni sarà on line "Risorgimento bit" un blog dedicato ai 150 anni dell'Unità d'Italia curato da Enzo R. Laforgia dell'Istituto storico varesino "Luigi Ambrosoli"

In questi giorni mi sono trovato a riflettere spesso, in famiglia, con gli amici e sul lavoro, sulla esplosione della retorica patriottica nell’imminenza di questo 17 marzo. Non ho mai sventolato un tricolore in vita mia. Eppure il culto della bandiera, della Patria, era molto presente nella mia famiglia di origine. Un nonno volontario della Grande guerra, morendo lasciò, come unica eredità, una bandierina tricolore con lo scudo sabaudo, ricordo della sua prigionia a Mauthausen. Mio padre, volontario nel 1940, si commuoveva sempre nell’ascoltare l’inno di Mameli (ma per farmi addormentare, quand’ero bambino, intonava il canto degli Arditi). Io, un po’ per ragioni generazionali e un po’ perché in certe forme di patriottismo dal sapore nazionalista non mi sono mai riconosciuto, non ho mai provato emozione verso le pubbliche manifestazioni dell’amor di Patria. Anzi, ricordo che ancora al tempo del liceo, per far arrabbiare il settantenne insegnante di greco e latino, intonavo con gli amici le parole dell’inno di Mameli, ma… sulla melodia di Sapore di sale!
In seguito, forse perché è vero che «A trent’anni la vita è come un gran vento che si va calmando», le pose incendiarie della giovinezza hanno ceduto il passo ad atteggiamenti più riflessivi. E così mi sono ritrovato ad interrogarmi sulle ragioni di quel giovanile rifiuto di tutto ciò che avesse a che fare con la retorica patriottica. Mi è venuta in soccorso una pagina di Natalia Ginzburg (si tratta della Prefazione al volume La letteratura partigiana in Italia 1943-1945, a cura di Giovanni Falaschi, Roma, Editori Riuniti, 1984). La scrittrice racconta di come avesse scoperto un sentimento patriottico alla fine della guerra:
«Le parole “patria” e “Italia”, che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché sempre accompagnate dall’aggettivo “fascista”, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere. Eravamo là per difendere la patria e la patria erano quelle strade e quelle piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava. Una verità così semplice e così ovvia ci parve strana perché eravamo cresciuti con la convinzione che noi non avevamo patria e che eravamo venuti a nascere, per nostra disgrazia, in un punto gonfio di vuoto».
Ho capito, così, che forse quella certa insofferenza che provavo (e che ancora talvolta mi assale) di fronte a certe esibizioni retoriche, alle commemorazioni in cui le sfumature e le differenze scompaiono nella museificazione dei gesti e delle parole, era dovuta ad un errore di prospettiva. Nell’accostarmi alle parole “Patria” e “Italia” e a tutto il loro corredo simbolico, volgevo lo sguardo, in un certo senso, verso il passato, voltando le spalle al futuro. Mi guardavo indietro, e spesso non mi riconoscevo nell’Italia di ieri e dell’altro ieri. Ho capito, cioè, che, se l’Italia immobile e monumentalizzata della liturgia civile non riusciva a commuovermi, mi emozionava pensare al processo storico che, nel breve volgere di un secolo e mezzo, ha trasformato un insieme di piccoli e asserviti Stati reazionari e arretrati, in una democrazia solida e responsabile, ricca e moderna. Una realtà culturale in movimento, in cui l’identità nazionale non soffoca le mille altre identità che compongono il nostro puzzle identitario. Per questo, per fare i miei auguri a questo nostro Paese (e non mi trema più la mano scrivendo Paese con la maiuscola!), mi sono regalato la lettura di una pagina di una concittadina dell’Italia del terzo millennio, la scrittrice Igiaba Scego, che in un racconto dal titolo Salsicce, così racconta la sua identità:
«Vediamo un po’. Mi sento somala quando: 1) bevo il tè con il cardamomo, i chiodi di garofano e cannella; 2) recito le preghiere quotidiane verso la Mecca; 3) mi metto il dirah [abito femminile somalo]; 4) profumo la casa con l’incenso o l’unsi [miscela di incenso e altri profumi]; 5) vado ai matrimoni in cui gli uomini si siedono da una parte ad annoiarsi e le donne dall’altra a ballare, divertirsi, mangiare… insomma a godersi la vita; 6) mangio la banana insieme al riso, nello stesso piatto, intendo; 7) cuciniamo tutta quella carne con il riso o l’angeelo [focaccia]; 8) ci vengono a trovare i parenti dal Canada, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dall’Olanda, dalla Svezia, dalla Germania, dagli Emirati Arabi e da una lunga lista di stati che per motivi di spazio non posso citare in questa sede, tutti parenti sradicati come noi dalla madrepatria; 9) parlo in somalo e mi inserisco con toni acutissimi in una conversazione concitata; 10) guardo il mio naso allo specchio e lo trovo perfetto; 11) soffro per amore; 12) piango la mia terra straziata dalla guerra civile; 13) faccio altre 100 cose, e chi se le ricorda tutte!
Mi sento italiana quando: 1) faccio una colazione dolce; 2) vado a visitare mostre, musei e monumenti; 3) parlo di sesso, uomini e depressioni con le amiche; 4) vedo i film di Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Totò, Anna Magnani, Giancarlo Giannini, Ugo Tognazzi, Roberto Benigni, Massimo Troisi; 5) mangio un gelato di 1,80 euro con stracciatella, pistacchio e cocco senza panna; 6) mi ricordo a memoria tutte le parole del 5 maggio di Alessandro Manzoni; 7) sento per radio o tv la voce di Gianni Morandi; 8) mi commuovo quando guardo negli occhi l’uomo che amo, lo sento parlare nel suo allegro accento meridionale e so che non ci sarà un futuro per noi; 9) inveisco come una iena per i motivi più disparati contro primo ministro, sindaco, assessore, presidente di turno; 10) gesticolo; 11) piango per i partigiani, troppo spesso dimenticati; 12) canticchio Un anno d’amore di Mina sotto la doccia; 13) faccio altre 100 cose, e chi se le ricorda tutte!»

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Pubblicato il 17 Marzo 2011
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