Il pastore sconosciuto e quell’anello che mi salvò la vita
La storia vera di un'amicizia nata in Sicilia durante la seconda guerra mondiale, protagonisti un caporale di artiglieria varesino e un vecchio pastore
Un uomo come noi: giovani soldati, neppure di vent’anni, in questa Sicilia cotta dal sole, arsa dalla miseria, bruciata dai bombardamenti. Un caporale maggiore di trentacinque anni comanda nei pressi di Messina una squadra di artiglieria nella Seconda Guerra Mondiale. È a migliaia di chilometri da casa e qui manca di tutto. A ferire il cuore, però, sono soprattutto gli affetti lontani: la famiglia, il figlioletto in fasce, una sola fotografia come ricordo e speranza di un ritorno che si fa sempre più improbabile. Il caporale Mario la cerca, la trova, la ripassa millimetro per millimetro. Non c’è un solo particolare che non conosca, eppure non basta: l’amore è infinito anche nella sua rappresentazione. La stringe a sé quando le fortezze dell’aria – i bombardieri americani – trasformano il giorno in notte con le ali possenti di aquile di metallo. «Non c’è scampo», pensa il caporale. «Cara moglie, figlio mio, questa sarà l’ultima volta. Senza più un abbraccio».
È in quelle settimane terribili che la squadra mantiene la posizione e si ritrova, la sera, a condividere quel poco che c’è: le gallette dure come sassi, il vino aspro senza più sapore, qualche erba dei campi. Quel poco si moltiplica, non basta per nessuno eppure può bastare per altri. «Per quell’uomo come noi, che il giorno e la sera si accovaccia accanto alla nostra postazione per un bicchiere di vino e qualche boccone raccogliticcio: non c’è altro, eppure per lui è tanto. Non parla, ma i suoi gesti e i suoi occhi dicono ciò che vorremmo udire: che tutto possa finire al più presto».
Non è vero che la guerra cancella la bontà. Il caporale ne raccoglie lo sguardo, la sua profondità sembra perdersi nel pozzo dell’anima. La barba lunga e incolta, il gilet da pastore, il bastone per governare le greggi, gli scarponi affossati dalle stagioni: «Questa uniforme non fa la differenza: siamo uomini tra gli uomini», pensò più volte il caporale. Giorno dopo giorno il vecchio sale verso la squadra, mangia e svanisce nel buio. È come un fratello. E si fa capire. Mario gli mostra la fotografia: «Ho moglie e figlio a casa». Rapidamente, il pastore gli strappa l’immagine dalle mani e fugge: Mario si blocca stupito, non sa cosa fare, indugia nel rincorrerlo. Non servirebbe a nulla: in fondo, con la foto non se ne va la speranza.
Passano i giorni, la notte rinfresca sotto il cielo abbrustolito eppure ancora una volta stellato. La vita riserva sorprese e decisioni misteriose: «Chissà che fine avrà fatto quel vecchio?». La guerra non lascia spazio agli interrogativi: il destino non lo si può scegliere. Ma è proprio il destino ad avere gli occhi del futuro: eccolo il pastore. Eccolo un’altra volta risalire la collina, stancamente, con la riconoscenza tra le mani: dal taschino del gilet fuoriesce un piccolo pacchetto avvolto in foglie di vite. Si apre tra le mani callose con la pazienza di chi vuole dare dopo aver ricevuto. È il miracolo del dono che si manifesta nel sangue del conflitto. «Cosa avrò mai fatto per meritarmelo?», si chiese il caporale.

Sotto le bombe non ci fu scheggia che colpì il caporale: l’anello infilato al dito gli portò fortuna, per tanto tempo ancora. Oggi, quel dono ha più di settant’anni e il figlio di Mario – Franco – lo conserva tuttora in una scatoletta che non ha nulla di prezioso se non quel ricordo. Il caporale – mio nonno – non parlò mai della guerra e dei suoi commilitoni: ciò che aveva visto, gli bastò per sempre.
(foto: l’anello di corno. La foto al centro ritrae la moglie dell’artigliere e il figlioletto Franco che custodisce con grande gratitudine questo prezioso oggetto)
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