Il tossico cristiano, la doppia vita di Stefano Binda

L'uomo accusato di aver ucciso Lidia Macchi ha una passato e un presente pieno di contraddizioni, ma per la difesa una vita sregolata non è sinonimo di colpevolezza

Testimonianza Stefano Binda processo Lidia Macchi

Non sappiamo se abbia ucciso Lidia Macchi, ma oggi sappiamo chi è Stefano Binda. L’uomo dalla doppia vita, di sicuro, ma anche un ragazzo fragile, un bohemien, un cristiano, un intellettuale e un amico per i suoi concittadini. Una girandola di cose, tutte insieme.

Ma perché sarebbe lui l’assassino?

E’ questo nodo che dovrà affrontare la pm Gemma Gualdi quando il 20 marzo inizierà la sua requisitoria contro l’imputato. In questi mesi è emersa una storia personale di Stefano Binda drammatica e quasi da romanzo.

Se fosse innocente, sarebbe stata per lui l’ennesima prova di una vita insieme sregolata e sfortunata, una sorta di onda del destino che ne ha minato, in ogni passaggio della sua crescita, il prestigio sociale e la possibilità di diventare una persona importante. E anche se non è mai diventato un professore universitario Binda al suo paese, Brebbia, era rispettato, e anche dopo l’arresto i suoi concittadini ne hanno sempre sottolineato l’educazione. 

Le immagini del processo Lidia Macchi
 Binda da giovane

La psichiatra che lo ha avuto in cura per i problemi di droga, nel 1994, ne ha ricostruito l’infanzia. I problemi di obesità all’età di 12 anni, la forte personalità tra i suoi coetanei.

A scuola Binda diventa un punto di riferimento. Non viene da una famiglia borghese, abita in un paesino, ma al liceo classico si pone come un leader, come un tramite tra i professori e gli studenti.

E’ cattolico, intellettuale, poeta. Affascina la ragazze, ma agli psichiatri dice che a 17 anni circa decide di diventare un tossicodipendente. Non ammette le sue debolezze, questo colpisce, ma dice che l’ha voluto.

Assume vari tipi di droghe, secondo alcuni si buca già nel 1984 (è nato nel 1967). Egli smentisce e afferma che il buco lo avrebbe praticato solo molti anni dopo.

Per la psichiatra della comunità di Brescia che lo ebbe in cura, ha disturbi di personalità di tipo borderline.

Un consulente dell’accusa invece afferma che ha paura delle donne, che la loro vicinanza lo innervosisce.

La sua amica del cuore dell’epoca, Patrizia Bianchi, racconta che era misogino e che la respingeva. Ma è anche apparso chiaramente che Binda non la voleva e non la amava. Oggi l’imputato ne parla con assoluta indifferenza, non mostra nemmeno astio per averlo messo di mezzo indicandolo come il possibile autore della lettera anonima ai genitori di Lidia.

Il tema della doppia vita di Binda ricorre spesso, ma soprattutto negli anni di Cielle. Stefano partecipa alle attività di Comunione e liberazione, prega, aderisce al messaggio morale e cattolico della comunità religiosa, ma poi la sera va in strada a farsi; frequenta la piazza di spaccio di Besozzo, ha giri di amicizie che nessuno conosce, fino a quando la sua tossicodipendenza viene scoperta all’università. Desta scandalo, forse, ma intanto gli amici di Cielle lo aiutano, gli trovano la comunità.

Negli anni della scuola, dopo esser stato bocciato al Liceo Cairoli di Varese, si trasferisce al classico di Arona. Ma è con i suoi amici di Brebbia che segna il legame più forte. Binda e Giuseppe Sotgiu, Sotgiu e Binda. I due sono cattolicissimi, legatissimi, sempre insieme. Il terzo del gruppo è Piergiorgio Bertoldi, oggi nunzio apostolico in Burkina Faso. Gli ex amici per la pelle oggi sono preti. La procuratrice generale Gemma Gualdi, durante il processo, ha letto stralci di lettere con gli ex compagni; la polizia ha travato a casa di Binda riviste omosessuali nella sua biblioteca e poesie che alludono a un rapporto gay. Ma Binda ha negato, si è sempre rifiutato di spiegare il punto, invoca la sua privacy, e d’altronde questa sfera della sua intimità cosa c’entrerebbe col delitto?

Binda ne ha passate tante. L’uso di eroina, cocaina, hascish, anche i cocktail di Speedball: la sua discesa negli inferi delle sostanze, dopo gli anni Novanta, è costante. Intervallata da periodi di disintossicazione. Nega però di essersi mai prostituito. Ingrassa, dimagrisce, ma si mantiene sempre lucido. “Si gestisce da sé la sua tossicodipendenza” dice la psichiatra. La fascite necrotizzante al braccio è una conseguenza grave della droga. Non lo ammette con i medici ma gli deriva proprio dall’uso dell’eroina, anche se in pubblico egli lo nega.

Gli ultimi anni sono più appartati. La droga ritorna, a tratti. A  Brebbia vive con la mamma, scrive su un blog culturale, aderisce  all’associazione Magre Sponde, fa il critico di cinema. E’ integrato. Ha studiato a Pisa, filosofia, poteva fare una carriera universitaria, ma ha lasciato per strada le sue speranze. Le debolezze lo tormentano, sembra forte, ma è un ragazzo dentro.

 

stefano binda
 Binda il giorno dell’arresto

In aula ribadisce di non aver mai avuto un rapporto stretto con Lidia Macchi, sostiene che quella notte del 5 gennaio 1987 era alla vacanza di Pragelato, con i ragazzi di Cielle. Due persone lo confermano, si ricordano di lui. Altri non se ne ricordano. Ed egli stesso ha dei flash confusi di quella settimana. Dice spesso: “Non ricordo”, tranne una camminata e una pattinata su ghiaccio, in cui rischiò di ferirsi dopo una delle tante cadute.

In carcere si è sempre comportato bene: due anni di detenzione, nessun proposito di suicidio, tanta lettura, buoni rapporti con gli altri detenuti. Quasi un asceta. Si è arrabbiato solo quando si è alluso all’omosessualità, poiché temeva che gli altri detenuti lo attaccassero per questo.

Ci si chiede, ma Binda a chi è stato legato nella sua vita? Quelli di Brebbia, forse. Emerge in aula una relazione amorosa avuta all’università. Nel periodo della “fattanza” spicca un nome, quello dell’amico Fulvio Luzzardi, morto di overdose. Un legame forte, tanto che alla psichiatra, Binda, riferisce della sua morte come di un “tradimento” (“Mi ha lasciato solo”). Eppure Stefano, anche durante questo processo, non è mai stato del tutto solo. Per l’accusa sta nascondendo una verità inconfessabile e la sua doppiezza è evidente. Alcuni amici invece lo ritengono innocente e vengono a ogni udienza. E anche i familiari lo seguono: sono convinti della sua estraneità.

Roberto Rotondo
roberto.rotondo@varesenews.it
Pubblicato il 21 Febbraio 2018
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Commenti

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  1. roberto_marabini
    Scritto da roberto_marabini

    Bell’articolo! Non so se è tutto corretto, ma ogni tanto qualcosa di leggibile e professionalmente ineccepibile ci vuole! Grazie Rotondo

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