Il “Lavoro necessario” di Giancarlo Norese
Si arricchisce di un ulteriore contributo la trasformazione culturale dell'antica chiesetta rurale trasformata in atelier

Si rinnova di mese in mese il rapporto tra arte e territorio a Castello Cabiaglio, in un progetto che vede accogliere periodicamente artisti che presentano la loto produzione culturale in un luogo speciale: un’antica cappellina votiva agreste, ora riadattata a piccolo atelier.
Qui arriva l’opera di Giancarlo Norese “Lavoro necessario”.
Partendo dalle riflessioni di Marx attorno al processo di valorizzazione del capitale e modificando le condizioni di equilibrio rispetto alla produzione di una merce, Norese predispone un lavoro (con complice ambiguità, qui inteso in senso di “opera” – la prima all’esterno dello spazio di KCC) che rilegge l’autorialità e la misura del fare arte, optando per la non-produzione e il mantenimento di una distanza dalla produzione di una merce e del suo feticcio.
Luca Scarabelli, che ha da poco presentato un suo lavoro in KCC, trova una corrispondenza tra una piccola targa di metallo colorata grossolanamente di rosso, installata su un muretto all’esterno della cappelletta, e un certo sguardo sulle cose che caratterizza alcune recenti opere di Norese, in cui declina in senso del fare nella minimale logica pittorica di un quadrato colorato come deposito di un segno concluso in se stesso; opere che non sembrano richiedere molto sforzo interpretativo, come appunto “Quadrato rosa” o “Red Marx”, ma anche i “Refurbished paintings”. Con queste suggestioni, l’intuizione di Scarabelli è quella di avvalorare la tecnica del non-lavoro e del minimo sforzo / massimo risultato di Norese (che è in attesa di realizzare il suo contributo per KCC), e di suggerirgli di utilizzare la targhetta trovata come sua opera: proposta ben accolta e fatta propria dall’artista. C’è qui un raddoppiamento di intenzioni. Una pittura ready-made alla seconda potenza, si direbbe, dal doppio pensiero e doppio sguardo, un’opera che arriva da uno sguardo di un artista che pensa e guarda per e come un altro artista, in un gioco di scambi intuitivo e quasi emozionale in cui la superficie dell’autorialità intersoggettiva è riscritta, in cui il copyright concettuale è deviato e rinnovato, e il passaggio di un’idea e la sua approvazione è un processo svelato per la “costruzione” di un “lavoro necessario” in cui quello che conta è la sensibilità e la distanza. Questo lavoro necessario (termine marxiano assunto ad uso personale) è una buona forma e l’arte è una convergenza il cui modello valorizza le connessioni e la grammatica reticolare e trasversale, una certa complessità sociale e, perché no, un dubbio.
KCC è un “artist-run space” situato in una cappella votiva risalente al XVI – XVII secolo. KCC è una finestra culturale, un luogo che vuole suggerire l’importanza della contingenza, dell’effimero, del momento unico e irripetibile, proponendo la precarietà e la leggerezza come valore. Le opere non sono soltanto ospitate in questo spazio ma entrano a farne parte, diventando una presenza che – subendo la contingenza del tempo – si fa assenza e dimenticanza, o, tuttalpiù, memoria. Realizzate appositamente per questo progetto – che si configura come una sorta “stazione” sperimentale” – vivranno di un loro tempo specifico, più o meno dilatato, potranno anche sovrapporsi una all’altra, alcune opere cambieranno, spariranno, altre si aggiungeranno, in un intreccio e minima stratificazione di senso, dialogando per assonanze o per opposizione a sottolineare differenze e inediti punti di vista.
a cura di Valentina Petter
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