Lo Sherpa della solidarietà. Un ponte tra Varese e il Nepal

Ngima Sherpa, nepalese ben radicato a Varese fa il giardiniere e il cuoco a domicilio: solidarietà e impegno per il suo popolo sono gli ingredienti di questa storia raccontata da Federico Bianchessi

Generico 2018

Di Ngima Sherpa Varesenews ha parlato qualche volta in passato, in occasione di una mostra di immagini di montagna, di qualche cena nepalese da lui curata in veste di cuoco, di un concerto di campane tibetane e per alcune delle sue tante iniziative di solidarietà destinate al Paese del “tetto del mondo”, che del mondo occupa in realtà i piani più bassi della povertà.

Ma non abbiamo qui mai raccontato la sua storia, di come sia diventato un varesino stabile e ben integrato, un personaggio conosciuto e stimato da tante persone, e non soltanto qui o in Nepal, ma fino in Canada e in Nuova Zelanda. Un caso esemplare non solo di integrazione, ma di impegno civile. La sua storia è iniziata a quattordici anni sui sentieri del trekking verso l’Everest, uno di quei tanti ragazzini nepalesi, magri svelti e sorridenti, che scortano gli occidentali caricandosi sulla schiena bagagli pesanti, provviste, tende e attrezzature, in cambio di pochi dollari. Uno sherpa, appunto.

Di nome e di fatto, perché ‘Sherpa’ indica un’etnia originaria della Cina, tradotto letteralmente “gente dell’est”, ma il loro frequente impiego come portatori ha finito per creare il sinonimo. Ngima (che a sua volta, in nepalese, equivale a ‘Domenico’) era figlio di un autista dell’esercito, sempre lontano da casa, e doveva farsi carico di madre, sorella e fratellino. Il loro villaggio tra le montagne, Damar, contava appena sette case. E una quantità di modeste abitazioni sparse tra colline e montagne a grande distanza. Qualche mucca, qualche capra, qualche yak, pochi campi.

La prima buona sorte della vita di Ngima è stato uno zio sherpa a Kathmandu. L’aveva preso con sé e messo al lavoro con gli altri portatori. Cinquanta chili di carico, un dollaro alla settimana. Un giorno un’australiana si impietosì e gli pagò extra sei mesi di inglese nella capitale. La sua prima e unica scuola.

Qualche tempo dopo – era il 2002 e con impegno e sacrificio era riuscito non solo mantenere la famiglia, ma anche farsene una e a organizzare una propria agenzia -, gli spiriti dell’Himalaya gli propiziarono il miracolo. Sotto l’inconsueta forma di un’appendicite fulminante. Che colpì il dottor Vincenzo Spada, medico di Induno Olona, proprio al termine di una spedizione nei dintorni dell’Everest guidata da Ngima. Dolori acutissimi, impossibile prendere l’aereo, ricovero urgente. Problema.

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Il dottore non ha assicurazione, i soldi rimastigli non bastano e il sistema sanitario nepalese ha regole molto “americane”. L’ospedale non lo accetta. Gli altri del gruppo sono ripartiti, è lì solo. Non del tutto, per sua fortuna. C’è Ngima. Anticipa lui i soldi necessari all’operazione, poi lo assiste e per una settimana passa la notte con lui e gli porta da casa perfino il cibo, che l’ospedale non fornisce. Finché arriva dall’Italia la moglie e salda il debito. Quello economico, perché quello della riconoscenza lo colma Spada proponendogli di venire in Italia. “Fui entusiasta, accettai senza pensarci un secondo. Anche perché in quel periodo il turismo era messo in crisi dalla guerriglia maoista e il lavoro come sherpa era sempre più scarso”. Non è un’immigrazione allo sbando, però, né facile: occorrono cinque anni, per ottenergli un lavoro da giardiniere, che svolge ancora oggi, e completare le pratiche necessarie.

Il dottore gli mette a disposizione anche un appartamento nella sua casa a Induno, dove nel 2007 arriva ad abitare e dove resta qualche tempo prima di trasferirsi in un appartamentino a Masnago, dove vive con la moglie, le due figlie – 22 e 18 – e un figlio ventenne. “Studiano e lavorano tutti”, assicura con l’aria soddisfatta di un papà cinquantenne che ha realizzato un sogno. Lui che quando è arrivato parlava solo quel po’ di inglese imparato grazie all’australiana, e superare l’esame di italiano previsto dalla legge sui permessi di soggiorno (alla prova scritta ce l’ha fatta soltanto alla quarta volta) è stato come scalare l’Everest. Un altro bimbo, più piccolo, 13 anni, vive ancora a Kathmandu con la nonna.

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Giardinaggio e cucina nepalese a domicilio gli danno lavoro, insieme al reddito dell’Unlimited Sherpa Expeditions di Kathmandu, la sua agenzia di guide himalayane. Ma non esauriscono il suo tempo. Quello libero è dedicato ad aiutare i poverissimi della sua terra, quelli che non hanno avuto la sua fortuna, ma almeno hanno quella di poter contare su uno come lui.

E sulla rete di solidarietà creata a Varese ormai 25 anni fa da un’altra persona straordinaria come Tona Sironi, con l’associazione Eco Himal, che contribuisce a una quantità di progetti di assistenza, in campo scolastico, sanitario, culturale, sociale, collaborando quella presieduta dallo stesso Sherpa, la Nine Hill Association, con sede nella capitale nepalese. Una rete che coinvolge a sua volta altre onlus a livello nazionale, come la novarese Casa Alessia, e internazionale, fino in Australia e Nuova Zelanda. Una lunga lista di attività impossibili qui da ricordare tutte. I siti di Eco Himal (www.ecohimal.it) e di Nine Hill (http://ninehills.org.np) possono dare un’idea più completa e, a chi interessa, anche avvicinarsi e partecipare alle loro iniziative.

Diciamo qui soltanto che la piccola Damar, cresciuta nel tempo a circa 4mila abitanti, in un’area di abitazioni sparse a una distanza che è calcolata in quattro giorni di cammino, ha ottenuto negli anni, grazie all’opera di Ngima e delle organizzazioni che ha saputo attivare, la sua prima luce elettrica nel 2010, con pannelli solari (distrutti dal terremoto del 2015, ma rimessi e ora estesi a decine di case), il primo serbatoio interrato di acqua potabile con fontana e rubinetto, al posto dell’antico abbeveratoio unico per animali e persone, quattro edifici scolastici, e di recente persino il primo crematorio coperto che ha consentito alla popolazione di fede buddhista di non dover più portare i corpi dei defunti sulle montagne per bruciarli, a volte in modo sommario per la scarsità di combustibile. Ma l’opera più importante per Ngima è stato l’ambulatorio. Non a caso porta il nome di sua sorella Dali. Cinque anni fa, ebbe un bimbo, ma morì per mancanza di assistenza medica. Oggi di medici ce ne sono due. All’inaugurazione del Dali Sherpa Memorial Health Care Service, tra l’altro, hanno distribuito alle ragazze i primi tamponi igienici da usare al posto dei soliti vecchi stracci. Il prossimo progetto?

Un ponte di legno, anzi due, per facilitare il cammino dei bambini che vanno a scuola, e a volte camminano ore, adesso che hanno la scuola”. Un ponte, giusto: cosa di più simbolico?

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Pubblicato il 30 Gennaio 2019
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