Binda, la Procura chiede l’ergastolo

Stefano Binda parla in aula il giorno della sentenza in corte d’Assise d’appello a Milano: "Sono innocente, non ho ucciso Lidia". Il pocuratore generale Gemma Gualdi ha ripercorso in gran parte il quadro accusatorio già sostenuto in primo grado

Processo Binda a Milano

Alle 9.33 di mercoledì 24 luglio in completo grigio e camicia bianca Stefano Binda ha fatto ingresso in aula nella prima assise d’appello di Milano e invitato dal presidente ha subito preso la parola rivolgendosi alla sorella di Lidia Macchi presente in aula: “Stefania, io sono innocente. Non l’ho uccisa io, non so nulla di quella sera, ero a Pragelato dall’uno al sei (del gennaio 1987 ndr), ricordo di due pullman di persone e solo al ritorno ho appreso della notizia”.

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“Sono estraneo a tutti i fatti, non ho mai spedito né fatto avere nulla di anonimo a chicchessia, mai nella mia vita. Non ho ucciso e sono innocente”.

L’udienza è proseguita con la discussione del procuratore generale Gemma Gualdi, che ha ripercorso in gran parte anche se in maniera più breve (comunque per tre ore) il quadro accusatorio già sostenuto in primo grado: la frequentazione assodata fra vittima e imputato, la presenza di “sei alibi attribuibili a Binda, che non era a Pragelato”, perché già allora tossicodipendente, una condizione incompatibile col suo vizio: impossibile fare una vacanza di sei giorni se devi iniettarti eroina.

Poi la ricostruzione di quella sera del 5 gennaio 1987: l’auto vista dai testi nel parcheggio dell’ospedale secondo l’accusa era la 131 bianca in uso a Binda e solo a lui fra lo stretto giro di amicizie di Lidia. Un appuntamento, dunque coi due che si allontanano a bordo della Panda di Lidia fino al Sas Pinin dove la giovane verrà trovata morta il mattino del 7. Anche la questione della lettera inviata alla famiglia il 10 gennaio secondo la procuratrice Gemma Gualdi rappresenta una prova schiacciante per l’imputato: è stata scritta dalla stessa mano, riconosciuta dall’amica de cuore Patrizia Bianchi che vide lo scritto sul giornale.

È la stessa lettera di cui parlò nella precedente udienza l’avvocato Piergiorgio Vittorini, che ha raccontato di essere stato contattato da un suo assistito quale autore dello scritto: su questo la Pg ha chiesto di espungere dagli atti la testimonianza del legale “poiché è indiretta e inutilizzabile”.

La procuratrice ha rivolto il proprio appello ai giudici popolari: “Lo Stato vi chiede di valutare quanto in vostro possesso e già valutato da altri 36 giudici prima di voi” e al termine della requisitoria è giunta la richiesta di conferma della pena in primo grado, vale a dire l’ergastolo.

La parte civile rappresentata dall’avvocato Daniele Pizzi è poi tornata sulla lettera che rappresenta il cardine dell’accusa: “Perché l’anonimo estensore non si espone? Forse perché non esiste, forse perché come sostenuto dalla corte d’Assise di Varese rappresenta un tentativo di condizionamento del processo”. Un depistaggio, in altre parole: “Altrimenti perché l’avvocato Vittorini non convince il proprio cliente a sottoporsi ad un raffronto anche anonimo con la propria scrittura? Perché non consegna un campione del dna da raffrontare con quello della lettera?”.

Pizzi, prima di concludere chiedendo la conferma all’ergastolo per Binda, ha esortato la Corte a prendersi il tempo necessario per decidere “anche due mesi”, chiedendo “di effettuare nuove perizie grafiche o merceologiche su quanto sequestrato a casa dell’imputato”.

Patrizia Esposito, la prima dei difensori che ha parlato, ha chiesto l’assoluzione per Stefano Binda, offrendo sui fatti oggetto di indizio una visione completamente diversa riguardo agli elementi che nelle motivazioni della sentenza di primo grado hanno portato alla condanna.

“Nessuno ha visto Stefano Binda sulla scena del crimine, mancano i testimoni, mentre invece ve ne sono due fra i quattro compagni di vacanza che si ricordano della sua presenza a Pragelato”.

Anche le varie frasi trovate sugli appunti nella casa dell’imputato sono da leggere secondo Esposito in maniera diversa: “Sembra che ci sia stata la volontà di voler ritagliare sulla figura di Binda quella del colpevole e di voler leggere a tutti i costi gli elementi a suo carico”. Come il fatto del numero di telefono appuntato sul diario di Lidia che differiva non per una, ma per due cifre rispetto a quello di allora di Binda, o di una serie di frasi attribuite a Pasolini che l’allora studente aveva appuntato sul suo diario nel 1983.

Sergio Martelli, l’altro difensore ha sottolineato il clima nel quale il processo si è tenuto a Varese e il tentativo di far credere la presenza di “depistaggi e complotti che non ci sono mai stati”.

La sentenza è attesa per le 19.

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Pubblicato il 24 Luglio 2019
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