Lea, Gastone e il paese del pane bianco

Il passaggio clandestino della frontiera, l'accoglienza in Svizzera tra sogni, piccole umiliazioni e gesti di solidarietà: la storia di Lea Ottolenghi nelle pagine del suo diario scritto nel 1943. Una delle tante storie dell'Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano

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«Si vedevano al di là i lumi accesi nella terra tanto agognata ed una musica di fanfara ci giungeva all’orecchio, festosa, quasi ci attendessero e richiamassero con gioia».

Lea ha ventidue anni e il suo sogno sta di là del fiume Tresa: di qua l’Italia invasa dai nazisti e al buio per l’oscuramento, di là la Svizzera luminosa e in pace, la salvezza. È in fuga con la sua famiglia dalle persecuzioni e il suo racconto arriva fino a noi grazie al diario compilato in quei giorni. È una delle migliaia di storie autobiografiche scritte da italiani andati all’estero – per lavoro o per fuggire, per scelta o per obbligo – che l’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano ha raccolto nel nuovo progetto “I diari raccontano”.

Storia dell’emigrazione contemporanea, ma soprattutto di chi è espatriato nel lungo Novecento. A volte anche solo per un periodo, come nel caso di Lea Ottolenghi, ebrea, livornese (a destra nella foto, con la sorella e la madre), fuggita oltre confine passando da Milano, da Varese, infine da Luino.
Una fuga con la famiglia, ma con in testa l’amato Gastone Orefice, il cui nome sempre ricorre nel diario. «Partiti tutti e quattro da Milano, dopo Varese abbiamo preso un trenino e siamo passati attraverso luoghi così pittoreschi che se avessi avuto con me Gastone, mi sarebbe parso di fare un viaggio di piacere! Ad un certo punto ci siamo divisi per non dare troppo nell’occhio. Amedeo rimase con mamma, ed Emma ed io andammo a Luino e giravamo fingendo cercare una casa per allontanarci dai luoghi pericolosi per i bombardamenti. Se ne visitarono alcune, poi ci avvicinammo al confine ed è stato così strano, quando arrivate ad un ponte, al di là c’era la sospirata Svizzera! Si vedevano benissimo le casette… al di qua e al di là del ponte, formavano uno stesso paese, ci sarebbe voluto così poco arrivarci». I due villaggi erano Cremenaga e la ticinese Monteggio.

«Corremmo in fretta vicino al ponte e ci chiusero in un ripostiglio di legna» continua Lea nel suo diario, raccontando il drammatico momento del passaggio del confine. «A mamma, poveretta, a causa si vede della polvere venne un accesso di tosse che cercava soffocare perché ci avevano raccomandato di non fare alcun rumore. Dopo due ore andammo strisciando lungo il muro alla casa dei doganieri fino a mezzanotte, ed infine il gran passo! Però, quando fatta una rincorsa senza voltarci, arrivammo ad un cancello in mezzo al ponte, dovevamo passare attraverso un’apertura dove, mamma essendo grossa non ce la faceva a passare. Gettai al di là il mio sacco a spalla, e spingendola riuscimmo a farla passare. Nel frattempo delle guardie tedesche ci intimarono di fermarci ma noi correndo proseguimmo, sentimmo spari ed abbaiare di cani. Arrivammo trafelati ed un soldato svizzero ci fermò col fucile spianato: alto là, ci disse, siete in terra Svizzera! Mi sembrava sognare! Troppo bello e quasi facile per essere vero!».

Sul finire del 1943 l’atteggiamento della Confederazione era ancora improntato a rigide e burocratiche regole, come si scoprirà proprio nel diario. Nel 1944, di fronte all’avanzata degli Alleati e alla sconfitta ormai vicina, l’approccio cambierà gradualmente, fino ad arrivare ad una accoglienza attiva  – come nel caso dei bambini ospitati in famiglia nel Vallese, esuli dall’Ossola – e a una solidarietà morale, sentita da una parte della popolazione, che giungerà al punto di assistere i partigiani impegnati in battaglia.

Al di là della politica del governo federale, importante fu l’atteggiamento del Canton Ticino, grazie a un forte movimento democratico e alla presenza di colonie di antifascisti.

La stessa Lea ricorda l’accoglienza ticinese, tra rigidità burocratiche, gestione militare dei campi e attenzioni da parte della popolazione ticinese: «Siamo saliti in una macchina e ci hanno portato a fare una visita medica dopo che dei soldati ci hanno rifocillato e poi partenza per Bellinzona, scortati da un soldatino. Siamo passati da Lugano, quale meraviglia! Tu Gastone ci sei stato e puoi immaginare che effetto abbia fatto ai miei occhi! E sentissi come me la sbrigo col mio francese! […] Ci hanno fatto fare una doccia disinfettante e hanno preso tutti i nostri abiti per disinfettarli, è stato piuttosto umiliante specialmente quando i soldati tiravano fuori i nostri indumenti sbandierandoli e chiedendo: di chi è questo? Ero esterefatta e mi dispiaceva sopratutto per mamma ed Emma. […] Quando siamo arrivate passammo tutti in fila da una strada piena di negozi con ogni ben di Dio, indumenti di vera lana, di pelle! Cioccolata vera, caffè vero! Senza volere emettevo gridolini di gioia. Un signore mi guardava e comprendendo i miei desideri, mi offrì della cioccolata. Figuriamoci se l’avrei accettata! Ma la guida ci intimò di accelerare il passo, ed Emma con un’occhiataccia mi disse che non stava bene accettare! Con mio grande rammarico, rifiutai, poco dopo quel tipo mi raggiunge correndo e mi porge un saccoccio di marroni e se n’è andato. Una signora svizzera pure ci ha fermato e chiesto chi eravamo, da dove si veniva e ci ha abbracciato, tutta compassionevole! Certo dovevo essere buffa con lo zaino a tracolla, gli scarponi, carica di valige e fagotti. Infine siamo giunti e ringrazio Dio. Ma di te Gastone potrò avere notizie?».

Nei diari s’incrociano le storie individuali e la grande Storia, da scoprire tra le righe.

Lea Ottolenghi si salvò e sposò Gastone Orefice, vivendo poi in pace a Livorno.

 

Il progetto “I diari raccontano” sarà presentato al festival Glocal all’interno dell’incontro “Le cronache, le testimonianze e le storie dei nostri migranti”, 9 novembre, al Teatro Santuccio.

Le cronache, le testimonianze e le storie dei nostri migranti

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 30 Ottobre 2019
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