Vegezzi: “La pandemia ci ha insegnato i nostri limiti, abbiamo riscoperto le cose essenziali“

L'intervista al vicario episcopale della Zona di Varese. La Chiesa, il Papa, e il presente che stiamo affrontando: "Abbiamo potuto riscoprire di essere creature del Padre"

Generica 2020

Monsignor Giuseppe Vegezzi è originario di Nerviano e fu ordinato sacerdote nel 1984 dal cardinal Carlo Maria Martini; il suo primo incarico fu quello di vicario parrocchiale a Luino fino al 1988. In seguito, tra gli altri incarichi, è stato vicario oblato, parroco a Milano sui Navigli e prevosto e decano di Rho, prima di essere chiamato da monsignor Mario Delpini nel 2018 all’attuale incarico di vicario episcopale della Zona di Varese. E stato ordinato vescovo in Duomo da mons. Delpini (cooconsacranti monsignor Luigi Stucchi emonsignor Erminio De Scalzi) il 28 giugno 2020, insieme a mons. Luca Raimondi, vicario episcopale della Zona IV di Rho.

Lo ha intervistato Alessandro Franzetti, ricercatore universitario, già presidente del consiglio comunale di Luino e attento osservatore dei fatti che riguardano l’attualità della nostra provincia.

Eccellenza, ci può delineare le caratteristiche della Zona Pastorale II di Varese di cui lei è vicario episcopale?
«La zona dal punto di vista geografico è molto bella, vi sono i sette laghi e molto verde. È la zona seconda zona dell’arcidiocesi di Milano (che ne conta sette), la più numerosa: conta 235 parrocchie, con circa 265 sacerdoti (compresi i sacerdoti residenti in Seminario e nelle case di riposo) e 30 diaconi permanenti. La caratteristica è che è una zona molta varia, che va da Gallarate a Zenna, da Sesto Calende ad Appiano Gentile.
É composta da 11 decanati molto vivaci: li ho girati tutti più volte in questi anni. I sacerdoti qui si sono dati molto da fare anche nel corso della pandemia. È una zona in cui la Chiesa è viva e collegata col territorio».

Cosa rimpiange della vita da parroco ora che ha maggiori responsabilità?
«Mi manca soprattutto il contatto con la gente: ora, infatti, incontro i sacerdoti, come vescovo vengo sempre accolto bene nelle varie parrocchie, ma i contatti coi fedeli sono fugaci. Talvolta la domenica sono alla ricerca di una Chiesa dove celebrare messa, e quindi vado in aiuto dei preti che hanno bisogno per le funzioni».

Che cosa sogna per la Chiesa varesina da qui al 2030?
«Il sogno è quello di una Chiesa sempre più viva, gioiosa e capace di testimoniare la bellezza della fede con la vita vissuta, non tanto a parole.
Da qui in avanti i laici dovranno essere sempre più protagonisti. Da qui al 2030 vi saranno molto meno preti, oggi il 37% dei presbiteri ha più di 75 anni, dunque la Chiesa sarà fatta dal prete che celebra il mistero eucaristico con la partecipazione dei fedeli, con la caratteristica della gioia e dell’evangelizzazione come cifra dello stile di vita».

Quali spunti ci può dare questa pandemia per vivere meglio la fede?
«La pandemia ci ha insegnato i nostri limiti, siamo stati attaccati da un virus che ha sconvolto tutti gli ambiti della nostra vita.
Grazie alla pandemia abbiamo riscoperto le cose essenziali. Abbiamo riscoperto che sono essenziali gli sguardi, gli abbracci, le cose belle e semplici della vita. Dio padre è creatore, e viviamo sotto il timore di Dio, che non è paura di Dio. Abbiamo potuto riscoprire di essere creature del Padre».

Lei è stato nominato vescovo da Papa Francesco: in cosa si sente affine a lui?
«Mi accomuna a Papa Francesco la semplicità, che porta all’incontro umano con le persone. Troppo spesso i cristiani hanno il muso da funerale: noi dobbiamo essere convinti della bellezza dell’annunciare il Vangelo ed essere lieti in questo. Alcuni fronzoli della Chiesa possono essere superati».

Come mai Papa Francesco è osteggiato da certi ambienti all’interno della Chiesa e spesso osannato al di fuori delle comunità cristiane?
«Osannato al di fuori, per quello che conviene. All’interno, non sempre noi riusciamo a capire completamente alcune sue affermazioni: proviene da
un’altra cultura, e questo influisce anche sul modo di esprimersi. Al clero, anche a quello ambrosiano, dà fastidio che spesso lui lo bacchetti, perché i limiti che lui evidenzia non appartengono al nostro clero ( almeno nella stragrande maggioranza): certo non dobbiamo dimenticarci che parla a livello mondiale. Poi vi sono i settori tradizionalisti che non vogliono cambiare nulla, ma che da sempre ostacolano i diversi papi, anche i predecessori.
Qualche affermazione infelice gli è scappata: ma il nostro clero arriva a dire “il Papa è il Papa”».

L’arcivescovo Mario Delpini l’ha ordinata vescovo il 28 giugno 2020 in Duomo: cosa le ha trasmesso il pastore della Chiesa ambrosiana finora?
«Mi ha trasmesso la passione per il popolo di Dio e per le comunità cristiane, la passione per la semplicità e la passione di trasmettere il Vangelo».

Ci può spiegare la scelta del suo motto episcopale “Gaudete in Domino semper”?
«Sono convinto che dobbiamo gioire sempre nel Signore, che non ci abbandona mai: Lui ci accompagna sempre, per questo dobbiamo essere sempre lieti».

Lei fa parte della Conferenza Episcopale Italiana. Come raccogliere l’invito di papa Francesco a un nuovo Sinodo, dopo quello di Firenze del 2015 che non ha prodotto i frutti sperati?
«Ho partecipato a diverse sedute della Conferenza Episcopale Lombarda, non ancora a quella Italiana. L’invito del Papa a svolgere il sinodo della Chiesa italiana (anche se non si potrebbe chiamare così) è opportuno, noi in diocesi abbiamo iniziato a parlare di assemblea sinodale. É una necessità che si sente quella di rinvigorire la Chiesa italiana, e oggi c’è bisogno di capire come. Oggi siamo minoranza, ciò non ci deve abbattere, non dobbiamo rimpiangere i tempi in cui eravamo maggioritari: dobbiamo puntare a essere significativi».

(intervista a cura di Alessandro Franzetti)

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Pubblicato il 29 Marzo 2021
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