Il cappellano del carcere di Busto Arsizio: “Servono volontari per disinnescare una bomba sociale”
Il pensiero di don David Maria Riboldi, da tempo impegnato nella struttura di Busto come cappellano: "Mi appello alle associazioni del territorio per organizzare attività in favore dei detenuti»

È vero che mancano i Rems come dice il direttore Orazio Sorrentini (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici, ndr) ed è anche vero che mancano gli agenti di Polizia Penitenziaria come dice il sindacato ma don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio, è convinto che quando anche questi due problemi verranno risolti, la vivibilità del carcere di Busto Arsizio non migliorerà: «Almeno fino a quando non si struttureranno meglio le attività in carcere. Serve la volontà di investire sui detenuti e di occuparli in corsi di formazione, attività ricreative, corsi scolastici».
Secondo il responsabile della cooperativa “La valle di Ezechiele”, attiva nella casa circondariale di Busto Arsizio con alcuni progetti, «servono volontari che abbiano la voglia di mettersi in gioco per dare un’opportunità a queste persone che, se è vero che sono qui a scontare una pena per errori fatti in passato, vanno comunque aiutati a reintegrarsi positivamente nella società».
Da due anni a questa parte, dall’inizio della pandemia, quello di Busto è un carcere che soffre tra sovraffollamento, mancanza di attività, scuola a singhiozzo «poi ci stupiamo se i detenuti diventano aggressivi contro loro stessi o contro gli altri. Sono esseri umani compressi nelle loro libertà, arrabbiati, frustrati da un regime carcerario che non li considera. Basterebbe una partita di pallone per stancarli e farli andare a letto un po’ più sereni».
Tra le poche esperienze positive di questi ultimi mesi cita quella vissuta con mussulmani, cattolici e atei che hanno partecipato ad un corso di fotografia «andavano tutti d’accordo nonostante provenissero da storie e mondi diversi. Non c’è stato nemmeno un litigio, anzi si aiutavano a vicenda». Altra esperienza positiva è quella che sta vivendo con il fotografo Ermes Mereghetti: «È arrivato qui per realizzare un corso di musica, poi ha scoperto che c’era interesse per la fotografia e ha organizzato un corso. Ora lavora per la cooperativa».
Il problema, dunque, non è solo sistemico ma anche territoriale: «Le associazioni del territorio si accorgono che c’è un carcere in città? Quando qualcuno si avvicina a questo mondo, decidendo di spendere del tempo per gli altri, poi va formato. Mi appello alle realtà cittadine perchè si crei un sistema virtuoso in questo senso».
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