Matteo Bianchi, una settimana intensa: dall’addio a Roma al congresso provinciale

Dalla riconsegna delle chiavi dell'appartamento di Roma al primo congresso della Lega provinciale dopo quello che l'aveva rieletto l'ultima volta. Intervista a Matteo Bianchi

Matteo Bianchi, ultima foto nella sua casa a Roma

La foto che vedete qui sopra è l’ultima scattata nel suo appartamento romano, prima di riconsegnare le chiavi, a inizio di questa settimana.  Matteo Bianchi, dopo una legislatura alla Camera dei Deputati, torna a casa, e noi l’abbiamo raggiunto telefonicamente per fare il punto di una settimana intensa. «Sono andato a Roma per gli ultimi adempimenti da deputato e per svuotare il mio appartamento – spiega innanzitutto – A dire il vero, ho scoperto che è più difficile andare via dalla Camera dei deputati che entrarci».

Perché?
«Perché devi riconsegnare il tesserino, poi il passaporto di servizio e alcuni elementi che ti erano stati forniti per svolgere il lavoro quotidiano, poi devi sgomberare l’ufficio e la casella postale. Infine, sono andato a liberare l’appartamento».

Una scelta personale, quella dell’appartamento…
«Sì. Alcuni deputati hanno preferito stare in albergo, io invece ho fatto subito questa scelta, che si è rivelata di valore soprattutto nel periodo drammatico del Covid. A quell’epoca infatti le nostre attività continuavano, ma la città era totalmente chiusa: non c’era un ristorante aperto, un bar dove prendere un tramezzino. Io però, che nel monolocale avevo l’angolo cottura, andavo al supermercato a fare la spesa e spadellavo»

Cosa “porta a casa” dell’esperienza romana, nel bene e nel male?
«Innanzitutto, una maggiore capacità di fare relazione umana ma anche e soprattutto politico-istituzionale: perché lì sei in contatto con la politica che conta, quella ad altissimo livello. È un bagaglio di esperienza incredibile. Il lato negativo è che, per chi è abituato a muoversi nel locale e soprattutto nel centro nord, le liturgie della burocrazia romana ti mandano fuori di testa. Noi siamo abituati a individuare il problema, cercare una soluzione e tentare una strada. Non è cosi immediato a Roma: innanzitutto lì devi cercare chi è l’interlocutore e poi dove puoi trovarlo. Poi devi sottoporre il problema e sperare che tu stia parlando con la persona giusta. A quel punto se è andato tutto bene, puoi cercare di affrontare il problema e poi cercare una soluzione. Insomma, una situazione che ricorda un po’ quella scena delle dodici fatiche di Asterix…»

Qual è l’angolo di Roma che porterà nei suoi ricordi?
«Quello che stava di fianco al mio monolocale, l’immagine del ponte di Castel Sant’angelo. Io abitavo “al di qua del Tevere” ma oltre il ponte si vedeva Castel sant’Angelo ed era affascinante».

Da Roma al Comune di Varese senza ritorno

È stato uno choc un po’ per tutti gli “addetti ai lavori” la  sua “non ricandidatura” nei fatti  (E’ stato candidato della Lega alle ultime elezioni politiche, ma al terzo posto del collegio, cioè in una posizione dove era pressocché impossibile essere eletti, ndr) dopo il grande sacrificio della campagna elettorale per il comune di Varese: tutti davano per scontato che la sua molto onorevole sconfitta con Galimberti, giocata sul filo di lana, sarebbe stata “premiata” in qualche modo. Lei come ha vissuto questa esperienza?

«Quando mi è stato chiesto di candidarmi a sindaco di Varese, già sapevo che il mio nome era tra i papabili – spiega Bianchi –  Io avevo però fatto già tutto il percorso per diventare deputato e ci ero anche arrivato, dopo 22 anni di gavetta. Dopo solo due anni a Roma mi chiedono di ritornare nel territorio: onestamente, in prima battuta ho visto questa richiesta come un’altra croce da caricarmi sulle spalle. Poi però ho pensato che avrebbe potuto essere un vantaggio: governare una città capoluogo in un momento oggettivamente complesso permetteva di rimanere in luce e nello stesso tempo rimanere fuori dalla complessità romana, in quel momento particolarmente intensa. Ho così accettato, con delle richieste però sia in caso di vittoria che di sconfitta. Più precisamente, in caso di vittoria ho chiesto di non dover accettare assessori che non mi fossero graditi, e poi un aiuto in campagna elettorale, promessa quest’ultima che è stata onorata. In caso di sconfitta avevo chiesto invece di essere ricandidato nella stessa posizione della prima volta nel mio collegio di appartenenza. Il risultato però è quello che si è visto: non solo non sono stato ricandidato nella stessa posizione, ma addirittura sono finito in fondo al listino. Questo è stato il risultato di 105 giorni di sacrificio. È un messaggio poco piacevole, se ci pensate: il sacrificio e il merito non vengono considerati. Un messaggio negativo sia all’esterno che all’interno dei partiti e che allontana le persone».

Quali sono i suoi impegni ora?
«I ruoli che ricopro ancora nascono dalla mia carica di consigliere comunale, fin dai tempi di Morazzone: come consigliere sono membro del consiglio nazionale Anci e sono membro del Consiglio delle Regioni a Bruxelles. All’incarico di Bruxelles, iniziato nel 2015, tengo parecchio: è un ruolo marginale, senza emolumenti, e tuttavia l’ho preso a cuore perchè, da convinto autonomista, credevo e credo che le autonomie locali abbiano un ruolo sempre più importante nei confronti delle istituzioni europee, e il consiglio delle Regioni serve proprio a quello. Ho cominciato a frequentarlo con Luca Zaia nel 2015, e nel 2020 mi sono portato a casa la soddisfazione di fare eleggere il presidente della delegazione italiana nella persona di Roberto Ciambetti, presidente del consiglio regionale del Veneto. Non è una cosa banale: il comitato delle Regioni è una istituzione ufficiale, quindi Ciambetti è il leghista piu alto in grado nelle istituzioni europee. Quindi, quello che sto facendo dal punto di vista politico è questo: un impegno negli enti locali ma con uno sguardo sovravaresino. Potere poco, incisività poca, ma possibilità di approfondire una marea di argomenti e relazioni con una marea di persone, in contesti internazionali che accrescono la capacità e la conoscenza dei vari mondi».

C’è qualche altro obiettivo nel suo futuro? Qualcosa che c’entra con l’hockey magari, visto che l’abbiamo visto spesso al palaghiaccio?
«Lo sport è cosa che mi appassiona, e l’hockey su ghiaccio si sa che è il mio primo amore: mi piacerebbe, e ci stiamo lavorando, che Varese abbia un bel riconoscimento. Abbiamo un vantaggio competitivo (l’impianto di Varese è stato il primo ad essere ultimato in vista delle Olimpiadi invernali 2026, ndr), abbiamo le conoscenze, c’è stato persino il presidente Mattarella che ha lanciato una bella volata… il mio sogno politico e personale è vedere prima della fine del mio mandato da consigliere, la città di Varese che torna ai suoi fasti nel mondo degli sport del ghiaccio».

Il primo congresso provinciale Lega dopo sette anni

La settimana per Matteo Bianchi si concluderà da elettore della Lega: più precisamente al congresso provinciale che si terrà domenica al Teatro Sociale di Busto Arsizio. Quello che si celebra domenica è il primo congresso provinciale dopo l’ultimo che mi ha rieletto, per me a distanza di esattamente 10 anni dalla mia prima elezione: era il 30 settembre 2012. Dopo tre anni, nel 2015, sono stato rieletto come candidato unico e ci sono rimasto fino al 2021. La mia è stata la segreteria provinciale più lunga della storia della Lega di Varese».

Com’era stata?
«Mi si accusava di essere un “leghista democristiano”. Però io penso che nel momento in cui le spigolature le smussi prima dei congressi sei riuscito a fare il tuo lavoro politico, e quando poi il dibattito si palesa ti puoi permettere di essere più morbido. Non sarà cosi, però, questa volta».

I candidati, proprio ieri, da tre sono diventati due: sarà un derby tra le due anime del partito. Cosa ne pensa?
«Penso che è importante andare a congresso e che la base dei militanti deve tornare ad essere sovrana. Il segretario non può essere calato dall’alto. La storia della Lega varesina si è palesata nei momenti drammatici dei funerali di Maroni: in quella giornata è emerso il senso di appartenenza e militanza, che però negli ultimi tempi si era perso totalmente. Significa che la fiammella del senso di comunità a Varese c’è ancora, ma deve riemergere: e non può essere fatta con gli strumenti digitali ma sul territorio, partendo dalle sezioni. E votando il proprio rappresentante».

Stefania Radman
stefania.radman@varesenews.it

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Pubblicato il 01 Dicembre 2022
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