La sofferenza psichiatrica isola ed emargina: sfogo di un famigliare sulle difficoltà della vita quotidiana
La lettrice parla di "fallimento della legge Basaglia" e di società che ghettizza pazienti e famigliari. La risposta del Gruppo di Lavoro Provinciale per la salute mentale che racconta di strumenti di rete, inclusione e accoglienza

La malattia mentale vissuta da famigliare tra solitudine, senso di impotenza, stigma e paura del domani. Riportiamo la riflessione di una lettrice che parla di “legge Basaglia incompiuta” e di vuoto normativo. La sua lettera viene commentata dal GPL (Gruppo provinciale di Lavoro per la Salute Mentale) che raccoglie figure sanitarie e psicosociali ma anche parenti: il senso di smarrimento e di angoscia si può superare dal confronto e dal supporto dei diversi presidi presenti sul territorio.
L’eredità incompiuta di Franco Basaglia. A quarantasette anni dalla legge che porta il nome dello Psichiatra, l’assistenza ai malati è ancora incompleta, se non a volte ostacolata da un vuoto normativo inaccettabile.
Mettere al centro il malato, non la malattia.
Mettere al centro il malato. L’essere umano. La persona.
Mettere al centro le emozioni, le paure, i traumi, le gioie, le ferite, gli insuccessi.
Mettere al centro il cuore che batte – anche il cuore di un malato batte.
Mettere al centro la famiglia, quel nucleo di persone impotenti che vedono un figlio, un padre, una sorella, un amico perdere giorno dopo giorno vitalità e ragione.
Restituire la dignità. Questo voleva Franco Basaglia.
Ma come si può fare tutto questo, senza conoscenza? Come si può distinguere la persona dietro il velo spaventoso che una malattia mentale pone fra noi e loro?
Me lo chiedo da anni, da quando una delle persone più importanti della mia vita si è ammalata. Me lo chiedo da quando ho scoperto i punti cardine di una legge che prende il nome di un uomo che voleva migliorare la vita dei malati, ma che, se fosse vivo oggi, sentirebbe il peso del fallimento di una società intera.
Me lo chiedo da quando ho scoperto che quei punti cardine sono solo parole sterili, prive di continuità nella realtà, perché nella maggior parte dei casi i malati e le loro famiglie sono lasciati ai margini dell’assistenza, senza risposte né partecipazione attiva.
E allora io vorrei tornare al concetto di dignità. È una delle parole più utilizzate, inserita in ogni testo o discorso politico, sociale, etico, religioso, morale. Eppure, sfogliando i vocabolari, le definizioni di questa parola riportano sfumature diverse, partendo da quelle più antiche fino all’accezione universale dei giorni nostri. Fra quelle lette, questa è quella che mi ha colpito di più: degno è chi vive all’altezza della propria umanità. Certo, più che una definizione, sembra una riflessione. E allora riflettiamo.
Come si può essere degni, se si è invisibili? Come si può essere degni, se portatori innocenti di una malattia che non viene riconosciuta, spesso non diagnosticata, nascosta, velata dal sentimento di vergogna che colpisce chi ne soffre e chi osserva impotente?
Come si può vivere all’altezza della propria umanità se si ammala l’organo che regola tutti gli altri, oltre che la facoltà di ragionare secondo i paramentri della realtà circostante?
Mettere al centro il malato, significa riconoscerne la malattia. Significa accettarla, significa parlarne, significa poter ricevere le cure, esattamente come accade per le patologie che colpiscono il corpo.
Mettere al centro il malato significa parlare con la famiglia. Significa spiegare, assistere, capire, comprendere le infinite variabili che influenzano la vita delle persone e che sono dolorose, tanto più se vengono ignorate.
Mettere al centro il malato significa, a volte, prendere decisioni difficili che al paziente sono negate, poiché una mente prigioniera di una ragione oscurata non può essere libera. Mettere al centro il malato significa spesso scegliere per lui una terapia che possa poi ripristinare una titolarità di pensiero.
Ci sono gli Amministratori di Sostegno, ma spesso le diagnosi sono tardive e non rappresantano il giusto presupposto per richiederne uno.
Non basta il TSO, né una puntura, né una terapia che il paziente deve gestire da solo, giorno dopo giorno.
Secondo quanto mi è stato riportato dai medici nel corso di questi anni, perché un malato sia preso in carico dalla sanità attraverso un ricovero coatto o volontario, devono esserci gli estremi per trattenerlo. Il fatto che una persona sia in difficoltà, abbia allucinazioni, senta voci o viva in una realtà immaginaria e pericolosa non è sufficiente. Il fatto che un individuo rappresenti un pericolo per se stesso o per gli altri non è abbastanza. Il fatto che il malato non sia in grado di prendersi cura di sé e di vivere secondo i canoni di quella che ancora una volta chiamiamo dignità non sembra essere un’urgenza.
C’è la libertà di scelta, dicono, e io non posso che pensare che nel mio paese a un malato terminale nel pieno delle sue facoltà intellettive venga negato il diritto di interrompere le cure e morire con onore, mentre si lascia a un paziente psichiatrico quello di non curarsi e continuare a sgretolarsi.
Io non ne posso più di questa mancanza di empatia, perché di questa mi sento vittima.
E nel corso di questi anni ho scoperto che non sono l’unica, che siamo in tanti, che qualcuno ha smesso di piangere, qualcuno lo fa solo di notte; ho conosciuto chi ha tirato un sospiro di sollievo fra le lacrime quando una sorella si è liberata dal suo peso togliendosi la vita. Ho conosciuto situazioni estreme, non abbastanza, però, per la legge.
E, si sa, la legge è inviolabile. Eppure, nei secoli, le leggi sono state modificate per i cambiamenti sociali, per cultura, per conoscenza, per studio, per consapevolezza.La legge sul divorzio, quella sull’aborto, sul delitto d’onore, sulle pensioni, sullo stupro, sull’istruzione.
Certo, non sono nessuno per chiedere che una norma venga rivista, integrata, modificata, ma sono una libera cittadina capace di pensare e di fare rete.
Ho avuto modo di sentirmi circondata da gesti pieni di gentilezza e comprensione – perchè là fuori non sono tutti indifferenti – e lo spazio che questo giornale mi ha concesso è solo un esempio. E, allora, lo voglio usare al meglio condividendolo con quelli come me che vivono il vuoto normativo che avvolge queste situazioni, gettandole nel dimenticatoio sociale.
Non sono una voce fuori dal coro e sono stufa di questa omertà che isola, che emargina, che si lamenta e non discute.
Non lo so se questo servirà a qualcosa, ma vorrei raccogliere quante più voci possibili, se pur nell’anonimato per chi non può esporsi, perché molti pensano di essere soli, ma non lo sono. Perché solo lavorando insieme le cose possono cambiare.
Risposta alla familiare del sofferente psichico da parte del Gruppo di Lavoro Provinciale per la salute mentale
«Come Gruppo di Lavoro Provinciale per la salute mentale (GLP) – commenta Isidoro Cioffi, Coordinatore del GLP– siamo stati molto toccati dal grado di disperazione espresso dalla familiare del sofferente psichico che ha scritto tutto il suo dolore, la sua delusione e il suo disappunto per la difficile situazione in cui si trova».
La sensazione di isolamento, di un percorso impervio senza una meta rasserenante, di disperata emarginazione, che emerge nella lettera delle lettrice, evidenziano difficoltà che sembrano rendere l’esistenza a tal punto insopportabile da non permettere ai famigliari di intercettare le opportunità che il territorio, pur con molti limiti, offre: risorse specialistiche (psichiatriche, psicologiche, infermieristiche, educative, socio assistenziali), gruppi di mutuo auto aiuto per pazienti e familiari, assistenze di comunità, di centri diurni.
«Come membri del GLP – aggiunge Roberto Soru, psicomotricista – ci impegniamo perché il suo lavoro sia utile a tutti, pazienti e familiari, nell’incontro drammatico con il disagio psichico, perché il vissuto esistenziale di solitudine non diventi percezione di abbandono».
Il GLP, grazie al lavoro di rete, cerca di avvicinare operatori sanitari, associazioni di utenti, associazioni di familiari, di pazienti, di semplici cittadini: in questo modo si vuole permettere ai singoli di superare la convinzione diffusa che i disturbi mentali impediscano, a coloro che ne soffrono, di essere sufficientemente autonomi e titolari di indipendenza di giudizio e attitudine critica rispetto al proprio malessere e al modo per affrontarlo.
Il gruppo è aperto e non gerarchizzato che si riunisce una volta al mese, attualmente al Liceo Manzoni di Varese. Comprende operatori dei Servizi sanitari, associazioni dei familiari e del volontariato, il mondo della scuola, della cultura, delle associazioni sportive, della realtà universitaria, degli enti locali, della società civile.
Oltre ad esser luogo privilegiato di informazione e di scambio sui temi dell’assistenza psichiatrica vuol essere punto di riferimento e in costante evoluzione nell’ambito della promozione di una corretta cultura contro lo stigma e a favore di iniziative finalizzate all’inclusione sociale delle persone che soffrono di disturbi psichici e dei loro familiari.
L’esemplarità e la singolarità di questa esperienza, che si protrae ormai da più di trent’anni sta nella parola alleanza, alleanza con i familiari e le loro associazioni non solo per una reciproca comprensione, ma per un fare insieme condividendo valutazioni, obiettivi, programmi e attuazione di interventi. E questa alleanza è stata utile alle stesse associazioni.
Ugualmente importante è l’attività che svolge il CoPASaM (Coordinamento Provinciale Associazioni per la Salute Mentale) costituitosi con la chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici per cui si era battuto Franco Basaglia. Il CoPASaM lavora per avvicinare le associazioni ai servizi.
Se interessata, invitiamo, con l’emozione che ci ha fatto provare con il suo disperato messaggio, la lettrice a venire al GLP; in tal caso faremo in modo di darle gli strumenti per contattarci.
PierCarlo Citerio psichiatra, psicologo, infermiere, educatore professionale del Centro Gulliver spiega: « Risulta importante e necessario condividere, insieme, con il diretto coinvolgimento della persona interessata e della sua rete familiare e amicale un reale e graduale percorso di vicinanza, sostegno e sincera consapevolezza. Tutto ciò senza giudizio e ciascuno con la sua parte di responsabilità e competenza».
«Il GLP ha fatto riflettere noi membri che, prima di curare, bisogna imparare ad ascoltare, che ogni tunnel, per quanto buio e lungo, come ha un inizio, ha anche una fine; ci ha fatto vivere le emozioni del sofferente psichico e dei suoi Familiari».
Il gruppo invita la lettrice a venire al GLP per conoscere le molteplici possibilità di sostegno e condivisione esistenti, per non sentirsi isolata nel suo impegno quotidiano.
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