“Il canto del respiro” incanta il pubblico di Glocal Doc: un viaggio universale tra suono, vita e natura
La regista svizzera Simona Canonica convince con un’opera che parte dall'esperienza intima e personale della maternità e diventa esperienza universale attraverso suoni, immagini e silenzi
Una sala raccolta, immersa nel silenzio e nell’ascolto profondo, ha accolto la proiezione del documentario “Il canto del respiro” nella quarta giornata di Glocal Doc 2025, terza edizione del festival varesino del documentario. Un’esperienza immersiva che ha coinvolto gli spettatori con la suggestione delle immagini e la potenza evocativa del suono.
A firmare il lungometraggio è la regista svizzera Simona Canonica che, come ha spiegato al pubblico in sala, è partita da un’esperienza intima per costruire un racconto potente, privo di confini, capace di attraversare culture e territori: «L’idea iniziale è nata durante la mia prima gravidanza, quando “ascoltavo” mia figlia e il mio corpo che cambiava. Da lì è nata una riflessione sull’importanza del respiro, un’esperienza che unisce tutti gli esseri viventi».
E se per mettere al modo la sua bambina, che con la sorella più piccola compare nelle scene finali del film, ci sono voluti nove mesi, per dare alla luce la sua opera sono stati necessari nove anni: «Dall’idea alla realizzazione è trascorso molto tempo, perché abbiamo esplorato diversi luoghi del mondo per cercare dove si manifestasse “il canto del respiro”. Li abbiamo trovati in Mongolia e in Australia, ma anche in Italia. Non tutto quello che cercavamo è poi entrato nel film e spesso ci siamo lasciati ispirare dagli incontri fatti durante la nostra ricerca».
“Il canto del respiro” è un’opera silenziosa e profonda, che non ha bisogno di voce per raccontare. Il suo linguaggio è quello delle immagini, dei suoni ancestrali, della contemplazione. Simona Canonica accompagna lo spettatore in un percorso che unisce luoghi lontani e tradizioni diverse, tutte connesse da un elemento primordiale: il respiro.
In Mongolia, anziani saggi insegnano ai giovani a ritrovare la propria voce interiore attraverso il canto. In Australia, un nativo tramanda la storia del suo popolo con il suono viscerale del didgeridoo. In Italia, è un abete a custodire la musica da ascoltare, quella nascosta nella natura che poi si manifesta nel suono di un violino.
La cinepresa si muove leggera, rispettosa, quasi invisibile. Il tempo della visione è quello della meditazione: un invito a fermarsi, a inspirare profondamente e ascoltare. Il documentario diventa così una riflessione sul ciclo vitale del respiro, inteso non solo come funzione biologica, ma come gesto spirituale, creativo, musicale. È ossigeno, ma anche connessione. È suono, ma anche silenzio abitato.
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