Una danza sull’abisso
Ottant’anni fa, Dmitri Shostakovich dava alle stampe la sua Quarta sinfonia. Fu eseguita, per la prima volta, solo nel 1961
Dmitri Shostakovich compose la sua Quarta Sinfonia tra il 1934 e il 1936, ma la prima esecuzione pubblica avvenne solo il 30 dicembre 1961 per mano di Kirill Petrovic Kondrasin alla testa dell’Orchestra Filarmonica di Mosca. A ritardarne l’esecuzione sarà lo stesso Shostakovich, ormai tacciato di formalismo e vittima delle censure del regime sovietico.
A ottant’anni dalla stesura, e a poco più di cinquant’anni dalla premiere, è difficile pensare a questo sinfonismo dell’abisso come ad una “colata compositiva rimasta allo stato grezzo”. Più volte considerata “piena di difetti” dallo stesso compositore – lunghezza, costruzione superficiale e forma sbagliata – la Quarta è l’opera di un’acuta mente del XX secolo capace di trasfigurare i modelli di Caikovskij e Mahler in un linguaggio che chiede, interroga, deborda da quell’esigenza di sicurezza ed esaltazione popolare tanto cara al realsocialismo.
Di impressionante difficoltà tecnica, l’opera giunge con decenni di anticipo a rappresentare con caustica lucidità le nevrosi contemporanee di un’umanità deturpata, avvilita e sconfitta. Improvvisamente il compositore spalanca gli occhi, e pretende che lo faccia anche la massa. Non c’è limite al buio che si annida nell’anima, e la sola luce alla quale affidarsi è un’oscurità ancora più profonda nell’abisso di una falsità che deve essere contrastata. Tra valzer viennesi, Laendler, temi pastorali Shostakovich inserisce stacchi di stress musicale, discontinuità e incoerenze, assalti ritmici e dissonanti. E, come scrive Franco Pulcini, “danza sulle macerie della musica passata”. Senza speranza.
La marcia è funebre, il Presto è violento, lo Scherzo investigatore. Non c’è tregua e non ce ne sarà per l’intera partitura. Non c’è trionfo se non nella presa di coscienza di ciò che si fa e si é. Così, la Quarta si fa prova di resistenza nella quale la pace è un’illusione ma, soprattutto, un lusso che non ci si può concedere. L’ombra della morte accompagna, sotto dittatura, chi ancora cammina e respira. Un’ombra che gli strumenti, accorpati in un litigioso incedere, trasformano in marionetta meccanica su un montare strategico di una fine angosciante e inclemente. Nell’attesa di una salvezza che non arriverà mai.
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